Cavarzere giacente humile fra palustri canne...

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    Cavarzere giacente humile fra palustri canne...
    Storia e cronaca dal XVI al XVIII secolo
    (Documenti di storia cavarzerana 3)
    Carlo Baldi
    Grafiche Mariotto, Cavarzere, 2003. Pagine 376


    Dal libro...

    Accadeva ogni anno, quasi sempre a maggio. Una domenica, durante la messa grande, l'arciprete annunciava la prossima estrazione della “grazia”, il sussidio dotale offerto dalla Scuola del SS.mo Sacramento. Per darsi in nota le ragazze da marito che desideravano concorrere avevano cinque giorni di tempo, durante i quali si andava completando una lista contenente talvolta una cinquantina di nomi. Entro il sabato l’elenco delle aspiranti veniva esposto alla porta dell’oratorio della SS.ma Trinità, affinché i confratelli della Scuola ne potessero prendere visione con comodo. Per giudicare e votare con la coscienza tranquilla erano tenuti ad informarsi in anticipo sul comportamento delle singole giovani e sulle condizioni economiche delle loro famiglie.
    Una settimana dopo, la domenica, terminate le funzioni del vespro, la campana chiamava all’oratorio le ragazze, che cercavano di non mancare neppure se il tempo si metteva a fare il matto proprio quella sera, come talora succedeva. Potevano partecipare anche le fanciulle di dodici anni, età in cui si consentiva il matrimonio, e questo era un vantaggio: più giovani erano e un maggior numero di volte avrebbero potuto ritentare la sorte. Sia le grandi che le più piccole entravano accompagnate dalla madre o da un altro famigliare per esser meglio riconosciute dai confratelli, i quali le attendevano insieme all'arciprete. Spettava a loro scegliere fra le presenti le “donzelle povere et honeste” da ammettere poi al sorteggio della grazia, avendo “mira alla povertà, al bisogno, al pericolo”.
    C’era dunque un esame da superare, e le materie erano due: povertà e onestà. Per quanto riguarda la prima non dovevano esserci grossi problemi di scelta. Le donzelle benestanti non si mettevano in lista, e nemmeno quelle che vivevano con vergogna il loro stato di bisogno e non avrebbero sopportato di acquisire, partecipando, una sorta di patente di povertà. Le giovani che si presentavano erano in gran numero orfane di padre e non si ponevano problemi d'immagine. Nel piccolo paese tutti avevano il loro daffare per sbarcare in qualche modo il lunario, per cui non c’era niente da nascondere, né c’era da arrossire per le difficoltà della vita. Nel caso di abilitazione al sorteggio queste giovani avrebbero conseguito un pubblico riconoscimento: povere sì, me oneste e virtuose! E ciò costituiva allora una grossa referenza, giacché, a giudizio di molti, in una giovane donna povertà e onestà erano due condizioni in conflitto, e la prima metteva a repentaglio la seconda. Erano tempi, insomma, in cui si dava per scontato che una ragazza di umili condizioni fosse alla fine costretta (specie se carina), o disposta, a perdere l'onore. Se non per fame, magari per farsi la dote, che in tempi tribolati e per famiglie numerose ed indigenti era una preoccupazione non lieve. La grazia valeva quindici ducati ed era un’occasione da non perdere.
    Eccole dunque lì, in attesa davanti ai confratelli in cappa rossa, le umili, fiduciose giovani di trecent’anni or sono, le antenate delle spensierate Sabrine, Lorelle e Samanthe di oggi. Avevano nomi che alludevano a bontà d’animo e virtù (Innocentia, Giustina, Honesta, Virginia, Sapienza, Savina, Pacifica, Santa, Degnamerita, Anzoletta…) o alla bellezza (Rosa, Gratiosa, Fiore, Biancofiore...). Ma alcune – al diavolo la miseria – sfoggiavano nomi di sicuro effetto: Diamante, Venera, Altadonna, Sovrana…

    Per l’assegnazione della grazia si procedeva in questo modo. Ogni ragazza, a turno, veniva chiamata davanti ai confratelli, che la votavano. Essi non dovevano essere mai in numero inferiore a quaranta. Le giovani che ottenevano almeno i tre quarti dei voti erano “approvate”, ed avrebbero partecipato al sorteggio finale. Le altre, non sempre poche, erano eliminate. A giudicare dai voti assegnati, i confratelli si trovavano in genere concordi sia nell’accogliere che nel respingere le singole ragazze. Qualunque fosse il personale criterio di valutazione che li guidava al momento di deporre il voto segreto nel bossolo – la volontà di lasciare in gara solo le più bisognose, o di premiare il buon nome di cui godevano – il loro verdetto si esprimeva quasi sempre in maniera chiara, con solo qualche voto contrario tanto per il sì quanto per il no, sicché tutto sommato doveva apparire obiettivo e accettabile.
    Conclusa la lunga e imbarazzante fase eliminatoria, si passava a quella spedita ed emozionante del sorteggio. In un primo bossolo venivano posti i biglietti con i nomi delle ragazze rimaste in gara. In un secondo si mettevano delle striscioline di carta bianca, tante quante erano le giovani da sorteggiare, ma una strisciolina portava la scritta: “Sia laudata la SS.ma Trinità”. Si chiamava poi un bambino, lo si bendava, si dava una rimescolata al contenuto dei bossoli e l'estrazione cominciava. Il bambino pescava contemporaneamente un biglietto e una strisciolina: se al nome della prima ragazza estratta corrispondeva una strisciolina bianca si passava ad una seconda ragazza e a una seconda strisciolina fino a quando la più fortunata sentiva abbinare al suo nome la frase fatidica, che di certo ripeteva esultante dentro di sé: “Sia lodata la Santissima Trinità!”. A questo punto i giochi erano fatti e alle altre giovani non restava, di norma, che sperare nel maggio dell'anno seguente.
    Alla vincitrice veniva rilasciata una ricevuta in cui la si dichiarava “capace di conseguire la grazia”. Ma a una precisa condizione: che fino al tempo del matrimonio vivesse “castamente, da bene e senza alcun scandalo”. In tal modo la Confraternita si proponeva di conseguire un duplice risultato: provvedere al bisogno della donzella ed anche costringerla, per così dire, a evitare tutti i pericoli che si riteneva insidiassero la sua virtù, specie se aveva la sfortuna di essere, oltre che povera, anche bella.
    Non tutte però, fra le vincitrici, ce la facevano a conservare limpida la propria fama. Per qualcuna la tentazione era alla fine più forte dei ducati. Come successe, con ogni probabilità, a Isabetta Lazzarin: vinta la grazia nel 1694, se la vide rimettere in sorteggio nove anni dopo per una non meglio precisata sua “deficienza”. Ecco perché succedeva, ma raramente, che un anno ci fossero in palio due doti, come avvenne ancora nel 1735, ai danni stavolta di certa Chiara Rubinato.
    Quel ritardare la consegna della grazia era un piccolo ricatto per mantenere la giovane sulla retta via, ma era anche il mezzo indispensabile per garantirle con sicurezza un vantaggio concreto al momento di metter su casa. Se i ducati fossero stati versati subito alla famiglia c’era il rischio che di essi, il giorno del matrimonio, restasse soltanto un lontano ricordo. Si temeva che invece di sostenere, anche se in misura modesta, i sogni e le speranze delle figlie, essi servissero per alleviare, un bicchiere oggi e uno domani, le amarezze e le delusioni dei padri o dei fratelli. La dote veniva perciò consegnata nelle mani dello sposo subito dopo le nozze, e neppure a lui in denaro, ma in oggetti o suppellettili.
    In che cosa consisteva la grazia? Leggiamo la lista di quella vinta da Anzoletta Gabanella nel 1692:

    L.33   Entima con penna per un letto
    L.26   Una trabacca           
    L.14   Una coltra           
    L.12   Due lenzuoli           
    L.  8   Un fazzuolo da testa              

    In tutto 93 lire, quindici ducati esatti. La felicità di Anzoletta – che due mesi dopo era già sposa – consisteva dunque in un materasso morbido e silenzioso invece del tradizionale saccone gonfio delle scomode e indiscrete foglie tratte dai cartocci delle pannocchie, in un paio di lenzuola, in una coperta e in un baldacchino, necessario per garantire agli sposini un po’ d’intimità nella presumibile promiscuità del casone nel quale saranno andati ad abitare. Quel “fazzuolo da testa” era certo un omaggio alla bellezza della sposa, ma il resto della dote rivelava in parte nella Confraternita una preoccupazione d’ordine morale.
    Qual era, in termini di fatica, il valore reale della grazia? Verso la metà del ‘600 esso corrispondeva al compenso d’un lavorante di campagna per 155 giornate di lavoro generico, oppure per 103 giorni impegnati a “far legnari” durante l’inverno. O corrispondeva al compenso per circa 60 giorni passati in piena estate a falciar l’erba nelle valli a pascolo o lungo i bordi dei canneti paludosi: un lavoro massacrante, per il quale la paga media giornaliera veniva raddoppiata.

    (“Cavarzere giacente humile fra palustri canne”, pagg. 127-130)



    In questo disegno del 1762 si vede il piccolo oratorio della SS. Trinità unito alla parete della chiesa di S. Maria Maddalena



    Se lasciate le affollate cerimonie del paese fossimo entrati nell’oratorio di Ca’ Pisani (San Pietro), dove il tabernacolo senza il Santissimo restava sempre aperto, avremmo visto nel 1714 appesi alle colonne dell’altare di legno due archibugi rotti, una drezza di capelli, uno di quei vestitini da fraticelli che indossavano un tempo i bambini malati, due candelotti miniati. Oggetti esposti per ricordare una grazia ottenuta o domandata, segni di una fede sincera richiamanti una realtà di fatica e dolore cui dalla pala sembrava alludere lo stesso San Pietro, raffigurato nell’atto d’intercedere ai piedi della Madonna della Salute col Bambino sulle ginocchia. La medesima realtà vissuta dai popolani del paese. Inginocchiati davanti ad altari ben tenuti e illuminati, con marmi lucidi e distinti arredi, essi avevano nel cuore un identico desiderio di protezione divina contro le disgrazie e le avversità che potevano segnare una vita. Alcune erano nominate in una “preghiera” diffusa a Cavarzere intorno alla metà del ‘600 in una duplice versione.

    “Questa oratione fu trovata nel Sepolcro del Nostro Signore in Gierusalemme et ha questa virtù: che chi la porterà secho non sarà guasto né giustiziato a torto, sarà liberato dal demonio, non morirà di morte subitanea, né di fature, né di aque, né di focho, né di vipera, né di anze, né di dolor di core, né di mal caduco. E se alcuna dona fose gravida partorirà senza pericoli se la darà a far dire, et la casa dove sarà questa oratione non vi sarà vizio né cosa alcuna…”

    “Chi la porterà adosso non sarà sentenziato da giudice et non morirà di malla morte, né sarà tentato da dimonii, né da falsi testimoni sarà accusato, et scaperà a mani di pregione, et schivarà pestilentia. Et se alcuna dona non potesse partorire se la meta in testa che senza dolore partorirà et senza pericolo di qual si voglia sorte di spirito maligno subito li usirà di adoso. Et chi la portarà adosso per quaranta giorni prima che mora vedrà la Beata Vergine Maria Santissima, Madre di Dio, Vergine del Cielo. Amen”.  

    Attraverso questa “preghiera” – che suggeriva una pratica vicina alla superstizione – la fede avrebbe dovuto annullare i pericoli dell’ambiente, le discutibili procedure della legge, l’impotenza della medicina, i rischi del parto sentito ancora come il biblico castigo, il vizio che toglieva serenità alle famiglie (il gioco, ad esempio, era occasione nelle osterie di frequenti risse e uccisioni). Ma si accenna anche a pratiche e credenze radicate nella cultura popolare: fattucchierie, influenze diaboliche che aiutavano a spiegare comportamenti altrimenti incomprensibili.
    A una fattura ricorse nel 1573 Benvenuta Boccaletta. Per riportare a sé Giovanni della Torre, il marito che l’aveva abbandonata per un’altra donna, fece soffriggere in una pignatta olio, sale ed erba sabina invocando che il cuore dell’uomo bruciasse come l’olio, e che il diavolo non gli concedesse pace all’anima né salute al corpo fino a quando non fosse tornato da lei. “Io non pesto né sale né savina, io pesto el core de messer Zanetto che debba vegnir a casa de sua mogliere. Cinque demoni scongiuro”. Zanetto, informato della stregoneria, stimò invece prudente denunciarla insieme a chi l’aveva aiutata.
       Di un maleficio si ritenne vittima nel 1566 Gasparo della Dea, sposato con Maria Augusti. Senza problemi di salute e innamorato, ogni volta che s’appressava alla moglie vedeva svanire il suo valore d’uomo, del quale si sentiva certo. Gli accadeva da tre anni, dal giorno del matrimonio. Dopo aver speso denari e consultato medici anche fuori paese, diede ascolto a un frate del padovano che lo convinse a cercare nel pozzo del Palazzo pretorio – dov’erano stati gettati, come gli spiegò, – i segni della fattura con cui l’avevano “ligato”. Il buon Gasparo nel suo entusiasmo riuscì a far svuotare il pozzo. Trovati sul fondo alcuni legni li portò speranzoso al frate, ma a casa ritornò come prima. Così raccontava la delusa Maria, risoluta ormai a ottenere lo scioglimento del matrimonio. In seguito, una esperta ragazza di Venezia avrebbe invece ripetutamente provato che il giovane non soffriva affatto di malefici, sicché col tempo non mancò finalmente a Maria ciò che aveva invidiato alle altre mogli.
    Connessi a pratiche magiche erano forse gli atti sacrileghi per i quali Maria Sacchetta Menone venne bandita in perpetuo nel 1683, e la profanazione dei calici con urina avvenuta in S. Mauro nel 1690. Un fatto accaduto nel 1720 mostra quali potevano essere gli effetti della superstizione accoppiata all'ignoranza. Caterina, moglie di Domenico Bellante, era caduta da tempo ammalata. Se ne attribuì la colpa a fatture che potevano esserle state praticate da Chiara Danielato. Di quest’avviso era soprattutto un prete cognato di Caterina, don Francesco, che davanti all’insidiosa malattia aveva visto inutile ogni sua preghiera. Occorreva liberarsi dal maleficio. L’occasione capitò una sera sul tardi, quando la presunta strega si trovò a passare “per mezo la casa delli Bellanti”. Caterina, la madre, il marito e il cognato uscirono di corsa e “caricarono di gravissime bastonate essa Chiara”. La poveretta cercò scampo dentro un’abitazione, dove il prete la seguì continuando “a batterla con rottura di testa et effusione di molto sangue”. Il fatto mise in imbarazzo il podestà, non essendogli mai capitato d’incontrare un simile esorcizzatore a colpi di bastone, che tuttavia era l’arma della gente pacifica

    (“Cavarzere giacente humile fra palustri canne”, pagg. 121-123)


    La chiesetta di San Pietro di Ca' Pisani raffigurata in una mappa del 1763



    In Consiglio i “cittadini”, e insieme a loro i popolani che con l’andar del tempo erano stati ammessi a farne parte, si trovavano talvolta divisi in litigiose “fattioni”, cioè in gruppi contrapposti fra i quali s’accendevano dispute particolarmente dure allorché si trattava d’assegnar poltrone, di dispensar cariche ritenute importanti. Nel 1705, in occasione della elezione d’un nuovo cancelliere, era successo un parapiglia tale che il rettore aveva fatto stridare un proclama col quale minacciava di deferire al Tribunale dei Dieci chiunque avesse ancora osato sollevar clamori o abbandonar la sala prima della conclusione delle operazioni previste dall’ordine del giorno. Ma la passione politica, si sa, quando c’è ed è genuina, è ben difficile da controllare. Pochi giorni dopo veniva riconvocato il Consiglio per discutere altri argomenti, tralasciando la questione del cancelliere. A Pietro Banzato, “capofattionario de molti”, non era ancora passata. Infischiandosene del proclama, ignorando il podestà e i suoi allarmati richiami, aveva dato ben presto in escandescenze e, “doppo d’haver lungamente essaggerato et tumultuato”, tentava insieme ai suoi partigiani d’uscir dalla sala forzando la porta che il podestà aveva fatto stavolta chiudere a chiave, mentre altri si calavano addirittura dalle finestre. In tal modo il Consiglio era andato a monte per la seconda volta.
    Ma in proposito il fatto senz’altro più curioso era accaduto nel 1603. Si doveva eleggere il medico della Comunità e purtroppo – racconta il podestà Bembo – “fu con larghissimi voti ripulso uno ch’era stato proposto et caldamente favorito da alcuni di questa Terra. Onde quelli che l’avevano favorito, sdegnati di tal repulsa, per quanto corre publica voce et fama, spinti da Diabolis spirito, sono stati tanto arditi et temerarj che si sono condoti a vendicar questa loro pretensa offesa non solo contra diversi cittadini del Consiglio, che per loro conscientia con la voce et con il voto furono disfavorevoli al soggietto da essi proposto per medico, ma quello che più importa si sono condoti ad usar il maggior vilipendio che mai sia stato usato contra alcun publico Rettor...”.
    In breve. La notte d’una calda domenica di mezz’agosto questi biliosi consiglieri non rassegnati allo scorno subìto avevano fatto visita ad alcuni di quei casotti, di quei brevi recinti posti al limitare degli orti dove la gente si ritirava all’occorrenza per i bisogni corporali. Raccolta dalle apposite buche una congrua quantità della materia ivi depositata, s’erano portati in piazza mettendosi al lavoro. Non sappiamo se ci fosse la luna e lavorassero quindi a vista o, con qualche pericolo, soltanto a naso. Di sicuro questi untori di paese ci dettero però dentro di buona lena, operando non a piccoli tocchi, ma a braccio e senza economia. Imbrattarono dapprima la porta di casa d’uno dei giudici; presero poi di mira bottega e abitazione dello spitier, il farmacista del tempo; toccò di seguito al lungo muro della “scola” di S. Andrea, nella quale abitava uno dei consiglieri. Un impegno particolare lo profusero nel sistemare casa e bottega del cerusico, il barbiere che svolgeva anche funzioni di chirurgo agli ordini del medico “fisico”. Gli ruppero il cancello e la porta della botteguccia, gli dipinsero a dovere i fazzuoli coi quali riparava o asciugava i clienti, gli intinsero in quel fragrante color ocra i rasoi, i pennelli e tutti gli strumenti del mestiere, riempiendogli per benino i bossoli dove scioglieva il sapone per far la barba o raccoglieva il sangue dei salassi. Sistemata in tal modo l’opposizione, s’erano rivolti all’autorità costituita. Forniti ancora d’abbondante materia si spostarono alla residenza del podestà, ch’era lì a due passi. Lordarono “da una banda all’altra” la porta del Palazzo, allargandosi lungo la muraglia del Castello per dipingervi “cose turpi et neffande”. Dopo di che, visto che ne avevano ancora, ne lasciarono una pentola sopra la scalinata del Palazzo con una spadetta di legno infilata dentro. Un esplicito messaggio al podestà.
    Il quale la mattina dopo per la testa non aveva tanto la disgrazia toccata al povero barbiere, ma l’insopportabile affronto che gente meritevole d’esser spedita su una galea per il resto dei suoi giorni aveva avuto l’ardire d’infliggergli. Giacché in quella maledetta pentolaccia, al posto della spada della Giustizia, ci aveva veduto se stesso reso oggetto di pubblica derisione; e senza uno straccio di guardia per tentar d’acciuffare i colpevoli; e con un cancelliere del paese che mentre gli dimostrava riprovazione per l’accaduto se la rideva, forse, sotto i baffi. Non gli restava altro da fare che rivolgersi ai Dieci – come tanti podestà prima e dopo di lui – simile a un bimbo che s’aggrappi alla mamma perché lo protegga, e punisca i compagni cattivi che gli hanno fatto male. Nell’umiliazione che lo opprimeva, egli trovava un qualche sollievo nel vedere il popolo “universalmente commosso e scandoleggiato”.
    Questo popolo che assiste partecipe alle sventure dei podestà è un frequentissimo ritornello che attraversa tutto il secolo. Somiglia al coro che nelle antiche tragedie interviene a commiserare, a commentare. Nella realtà paesana del ‘600, ho l’impressione che il popolo “commosso” sia in parte la materializzazione d’uno sfogo, di un bisogno di comprensione e sostegno per le difficoltà che i rettori incontrano; un modo anche di giustificare sé stessi e il proprio operato nonostante i fallimenti cui vanno incontro; un espediente inconscio per rafforzare richieste di aiuto a Venezia.
    Quanto a noi, non ci stupiamo per quegli estemporanei graffiti casarecci. I tempi sono maturati: alle cose, abbiamo imparato a sostituir le parole. E abbiamo scoperto che certe parole sono dotate d’una straordinaria carica espressiva, danno forza al discorso, colore e incisività alle battute. Per cui, in questa società dominata dai guitti, le si usa più del cacio sui maccheroni. Così – pur con qualche sobbalzo – ce ne lasciamo inondare ogni giorno le case quando esse piovono dalla TV a dare un po’ di nerbo a un languente dibattito, a vivacizzare uno stiracchiato sceneggiato, a rendere ancor più sapide le irresistibili spiritosaggini di certi comici, a conferire dignità artistica ad un film. Allora l’odiens sale alle stelle. Sicché meglio non potrebbe andare. Ma se il Bembo potesse sentire...

    (“Cavarzere giacente humile fra palustri canne”, pagg. 170-173)


    Foglio miniato dalla "Commissio" del Doge Andrea Gritti al Podestà di Cavarzere Stefano Trevisan
    (The British Library)




    Recensioni e articoli:

    A. Frezzato, Il Gazzettino, 1 maggio 2003

    P. Fontolan, La Piazza di Cavarzere, maggio 2003

    P. Tieto, La Piazza del Piovese, marzo 2008

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