Perderemo anche Ca' Labia?

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    “Sono occorsi parecchi anni, ma adesso il più è fatto. Il tetto del palazzo è crollato trascinando con sé alcuni muri, e dell'edificio a levante resta soltanto un cumulo di macerie. Basta pazientare un altro po', ed anche la scuderia, le cui strutture per il momento resistono, seguirà la medesima sorte...
    Che tutto finisca così è, secondo alcuni, on vero pecà. Ma niente di più, sembra: perché, in fin dei conti, non si tratta che di un vecchio fabbricato rurale, e non è dunque il caso di farne una tragedia. Personalmente ritengo invece che lasciar andare ogni cosa alla malora in questo modo sia un peccato di negligenza e di insensibilità. Se ne sta andando un'altra significativa traccia del nostro passato: una fra le pochissime conservate ancora da un paese che non può permettersi di buttar via niente, povero com'è di concrete testimonianze della propria storia.”
    Scrivevo così su “La Piazza” nell'agosto del 1994, riferendomi alla casa padronale di Lezze, da me fotografata ancora integra nel 1985. L'avevano costruita i Salvioni sul finire del Settecento a ridosso dell'Adige, nel cuneo compreso fra gli alvei da poco abbandonati dell'Adigetto e del Fiume Nuovo: un luogo dove prima, data la pericolosità, non si era mai costruito. Anziché riproporre un comune tipo di manufatto rurale, rappresentava una versione sobria e semplificata di qualche edificio importante che l'architetto aveva tenuto presente. Certe analogie appaiono infatti evidenti nel confronto con la pianta e il prospetto verso campagna della palladiana Villa Zeno, ora Gallarati-Scotti, a Cessalto. L'edificio di Lezze era tuttavia ispirato alla massima semplicità, come del resto si conveniva per una casa commissionata non da nobili veneziani, ma da gente di campagna attenta alla sostanza più che alle apparenze. Poche le modifiche apportate alla facciata originaria nel corso degli anni. Furono ingrandite le due finestre a destra del pianterreno e la finestrella sopra l'arcata centrale; fu costruito l'abbaino e vennero demoliti i due larghi comignoli che si alzavano in corrispondenza delle parti laterali, decorate un tempo ad imitazione di bugnato con modanature marcapiano fra i tre ordini di fori.
    Dai Salvioni la proprietà passò ai Galvani, i quali verso la metà dell'Ottocento insieme alla casa, affiancata dalla scuderia, possedevano tre stalle con fienili, venti casoni d'affitto e 337 campi padovani, quasi tutti arativi. Ai Galvani seguirono i Naccari e i Danielato, finché nel 1935 con lascito testamentario di Andrea Danielato la proprietà passò al Comune di Cavarzere.
    Poco lontano dal palazzo e in linea con esso sorgeva, assediata dai rovi e dall'aratro, una piccola costruzione “da giardino” ora scomparsa. Aveva quattro bellissime colonne di marmo bianco, rastremate e di ordine tuscanico, provenienti forse da qualche antico altare. Furono trafugate di notte alcuni anni fa: operazione che non dev'essere stata né breve, né silenziosa, dal momento che i ladri non poterono certo caricarsele sulle spalle. Un furto del quale sulla stampa locale non apparve il minimo cenno.

    La casa padronale di Lezze nel 1985. (Foto Baldi)

    Il prospetto verso campagna della palladiana Villa Zeno a Cessalto.

    La pianta della casa di Lezze (sopra) e
    la pianta di Villa Zeno a Cessalto (sotto)

    La casa di Lezze, non priva di una sua eleganza, nel 2016. (Foto De Montis)

    Il piccolo edificio da giardino a Lezze, nel 1985. (Foto Baldi)

    Negli stessi anni in cui progrediva la rovina del complesso di Lezze anche la chiesetta dedicata alla Beata Vergine della Neve a Ca' Dolfin si avviava al compimento del proprio destino. Era stata voluta da Daniele III Dolfin, già ambasciatore della Repubblica di Venezia a Vienna e in Polonia. Eletto ambasciatore a Costantinopoli nell'aprile del 1726, prima di mettersi in viaggio fece testamento. “... A maggiore decoro e comodo della casa mi è sortito, col divino aiuto, di ristorare, migliorare et accrescere notabilmente le fabriche di Venezia, Mincana, Fratta e Cavarzere con grave dispendio, fatica et aplicatione. Prego però li miei commissari e raccomando con tutto il cuore li amati figli, d'havere cura e di conservarle in buon stato, mentre col poco si mantiene ciò che non si fabrica col molto”. Saggi consigli, accompagnati dall'espresso desiderio di costruire una piccola chiesa a Cavarzere.
    Dopo la morte del Dolfin, avvenuta a Costantinopoli nel 1729, gli eredi fecero erigere la chiesetta davanti alla grande casa dominicale, dirimpetto al Gorzone. Venne benedetta il 5 maggio 1733 e per almeno due secoli vi si raccolsero in preghiera dapprima i coloni della vasta tenuta, passata in seguito ai Querini Stampalia, e poi la gente dei dintorni. Nel 1987, ormai dismessa, appariva isolata fra il mais ma ancora solida nella struttura. All'interno, dall'altare settecentesco in marmo era stata rubata nella notte fra il 2 e il 3 agosto del 1971 una tela raffigurante la Madonna con Gesù e San Giovannino. Dello stato in cui è oggi ridotta quest'altra testimonianza del nostro passato danno eloquente prova le foto riprodotte più sotto.

    La chiesetta di Ca' Dolfin nel 1987. (Foto Baldi)

    Disegno a china del 1989 di C. Baldi

    La chiesetta nel 2012. (Foto De Montis)

    Per il fabbricato di Lezze e la chiesetta di Ca' Dolfin ormai non c'è rimedio: resta il rammarico che non si sia potuto o voluto fare qualcosa. Ma si annuncia ora una nuova e ben più grave rovina: a Ca' Labia il tetto di una delle aule che affiancano l'oratorio dell'Assunta ha ceduto, e in due riprese è crollato per metà anche il tetto della barchessa. Lasciare che il disastro prosegua non sarebbe stavolta solo un peccato di negligenza e insensibilità, bensì un atto di disamore verso il paese, di colpevole noncuranza per un complesso storico che dev'essere assolutamente conservato.
    Fu giusto trecento anni fa, nel 1716, che la Comunità di Cavarzere, pressata dai debiti, mise in vendita i suoi terreni a vagantivo oltre il Tartaro, i cosiddetti “pascoli di Corcognan”: 386 campi padovani di diversa altimetria e condizione. Li comperò il conte Paolo Antonio Labia, e per renderli coltivabili provvide subito a regolare lo scolo delle acque. Negli anni seguenti acquistò alcune decine di nuovi campi, finché nel 1724 entrò in possesso del terreno di una certa Sapienza Salvadego. Era il luogo più alto e in migliore posizione, e lì il conte decise di costruire i tre edifici allineati di fronte al Tartaro, nel quale scorreva allora l'acqua viva dell'Adige. La barchessa, il palazzo e la chiesetta furono un segno di fiducia nel futuro, nella riuscita di un'operazione che intendeva mutare una landa incolta in campi fertili, le erbacce e le canne in frumento e granoturco. E se la barchessa trovava la sua giustificazione nel bestiame e nei raccolti che un giorno avrebbe protetto, la chiesetta trovava la sua nella previsione delle famiglie di contadini che si sarebbero insediate nella tenuta o nelle sue vicinanze, come infatti avvenne, dando così origine o consistenza alla borgata di Ca' Labia.
    La chiesa fu benedetta il 17 luglio 1728, data in cui verosimilmente era già terminata la costruzione del palazzo e della barchessa, progettati entrambi in vista di frequenti soggiorni del conte e non solo come abitazione del fattore o per necessità agricole. Lo dimostra l'attenzione che si riservò alla scuderia, destinata ai cavalli del conte e dei suoi nobili ospiti. Ricavata nella parte più fresca, a nord-est della monumentale barchessa, e separata da ogni altro locale, perfino dall'alto portico, era uno spazioso ambiente con tre porte ad arco, e con quattro finestre barocche su ciascuno dei lati lunghi. Disegni geometrici a più colori in leggero rilievo abbellivano le pareti, mentre porte e finestre – come si ricava da un inventario del 1765 – erano protette da coltrine di tela turchina.
    La decorazione della scuderia fu celata con spessi strati di calce verosimilmente in epoca napoleonica, quando si diffuse tale pratica allo scopo di “declassare” certi ambienti nascondendone le pitture ed evitando così un maggiore aggravio fiscale. La decorazione, solo in parte visibile, è quasi interamente recuperabile, trovandosi ancora sotto la calce o il sottile intonaco che l'hanno protetta per due secoli. A meno che le piogge insistenti di questi ultimi mesi, colando dal tetto squarciato, non abbiano iniziato ad intaccarla.
    Oltre che per le inusuali dimensioni la barchessa si distingue per l'armonioso prospetto ripartito da un marcapiano, con sette arcate policentriche impostate su larghi pilastri, comprese fra due ali alleggerite in basso da un'apertura ovoidale entro cornice e in alto da una nicchia con due archetti. Solido ed elegante, questo imponente edificio che ben rappresentava la condizione economica e lo spirito dei Labia merita di essere innanzitutto salvato, e in futuro – si spera – rimesso nella sua originaria forma, eliminando gli inopportuni interventi che nel corso del Novecento l'hanno via via deturpato: la chiusura parziale delle arcate e quella completa di alcune finestre, la modifica di certi fori, la costruzione di nuovi muri sotto il portico...
    Finito ormai il suo utilizzo per i lavori della campagna, la barchessa esternamente restaurata potrebbe essere adattata a nuovi usi, e la scuderia divenire ad esempio una bellissima sala. Usi comunque rispettosi del nuovo stato e degli altri elementi che proprio nel loro insieme danno valore e unicità al complesso di Ca' Labia: la chiesetta con le sculture di Angelo Marinali, il palazzo, la spaziosa aia lastricata con masegni, il parco (antico orgoglio dei Mainardi) dove sopravvivono alberi secolari: la grande magnolia (215 anni), il maestoso acero campestre (165 anni), l'acero negundo prossimo ai cento anni.
    L'intera tenuta dei Labia venne acquistata nel 1801 dal notaio Marc'Antonio Mainardi Mercante. Alla sua morte, nel 1831, una parte dei terreni, la barchessa e il palazzo toccarono al maggiore dei quattro figli, Francesco, al quale venne di fatto assegnata anche la chiesetta, col patto che la proprietà di questa sarebbe rimasta indivisa tra i fratelli. Nel 1856 Francesco Mainardi lasciò ogni cosa all'unica nipote Lauretta, che sposerà Francesco Beadin, sindaco di Cavarzere nel 1892 quando inaugurò il nuovo Municipio. Dai Beadin la proprietà passò infine ai Converso.
    Ed eccoci ai nostri giorni, con l'attuale proprietaria nell'assoluta impossibilità di intervenire per arrestare il degrado. Ma trattandosi di un fabbricato che per importanza storica appartiene in certo qual modo all'intera comunità di Cavarzere, non toccherebbe forse anche al Comune di cercare la via (interessando le autorità veneziane preposte alla salvaguardia dei beni culturali) per un intervento di immediata urgenza, non per ricostruire ma per impedire intanto un'ulteriore prevedibile rovina?
    Altrimenti il destino della casa padronale di Lezze e della chiesetta di Ca' Dolfin sarà scritto anche per Ca' Labia, e solo i toponimi resteranno un giorno a ricordare la presenza tra noi dei nobili veneziani, che per almeno tre secoli segnarono nel bene e nel male la vita dei cavarzerani.

    Carlo Baldi, 30 maggio 2016


    La barchessa negli anni Settanta del secolo scorso.

    Ai lati della finestra della scuderia sono visibili i rilievi della decorazione nascosta dalla calce. (Foto Baldi, 1988)

    Particolare della decorazione tra due finestre della scuderia. (Foto Baldi, 1988)

    L'ingresso orientale della scuderia. (Foto Baldi, 1988)

    Particolare della decorazione nella scuderia accanto a una porta. (Foto Baldi, 1988)

    Due finestre della scuderia.

    La scuderia vista dall'alto, dopo il primo crollo del tetto. (Foto Google Earth)

    La barchessa oggi, dopo il secondo crollo. Sono visibili segni di cedimento anche sul resto del tetto. Di questo passo...  (Foto De Montis)

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    1. gianca says:

      Un tuffo al cuore, se ne va un pezzo di storia tra indifferenza e disinteresse. Sono comunque riuscito a girare alcune scene che conservo in ricordo di quel favoloso periodo infantile trascorso a Ca’ Labia.
      Sfollato dai primi bombardamenti fui ospitato presso l’amata zia Isetta (Peona) . rammento le nuotate nel Tartaro, la meanda e la trebbiatura sul selese dai Franzin, appunto. L’uva regina spiluccata di straforo dalla vite che risaliva sulla prima colonna del portego della barchessa( c’è ancora, rinsecchita ma c’è) . Ricordo il profumo della siepe di bosso che orna il giardino antistante, la sagra a Ca’ Labia il giorno dell’Assunta. Le carrozze ( un landò) custodite accanto alle stalle. Ricordo il forno di Ciodi dove andavamo a cuocere il panbiscotto ma anche le fugasse per la Pasqua. La bottega del barbiere( Antico?) quella dello scarparo e del ciclista Finotto.
      Mi manca tutto questo non perché io sia un nostalgico del passato, semplicemente perché ho imparato ad amare una realtà che qualcuno mi ha reso tanto familiare al punto da farmene rimpiangere anche i dettagli più scomodi.

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