A caccia di lepri, fagiani e cinghiali

    da: »



    Secoli fa gran parte della gente di Cavarzere viveva con la raccolta della canna e delle erbe palustri, con la pesca e la caccia. Era ciò che spontaneamente offriva il nostro territorio nel suo vasto alternarsi di canneti, paludi, laghi e zone boscose. Gli Statuti del 1401 dedicavano vari capitoli alla raccolta della canna e alla pesca, la prima legata alla fabbricazione e al commercio delle grisole e di altri prodotti d'artigianato, la seconda al consumo interno ma soprattutto alla vendita del pesce d'acqua dolce richiesto dai mercati di Venezia e Padova. Quanto la pesca fosse praticata lo conferma il cenno che nel 1483 Marin Sanudo, in viaggio sull'Adige, riservò al nostro paese: “un locco pieno di valle, et munito di peschatori”. Alla caccia era invece dedicato un solo capitolo: vi si proibiva a chiunque, del luogo o forestiero, di “andare a catturare uccelli durante la notte ad caminum”, abbagliandoli cioè con una torcia o una lanterna per farli impigliare nelle reti. In armonia con altri capitoli, che allo scopo di evitare furti o devastanti incendi punivano chi girava di notte, il cacciare “ad caminum” era vietato tutto l'anno, e “in special modo nei mesi di agosto, settembre e ottobre”.
    A quel tempo la caccia veniva praticata con arco, reti, trappole, lacci ed ordigni vari, come del resto si usava in parte da noi ancora a metà del secolo scorso. Ricordo i giovanotti di Piantazza che alzando una rete tesa fra due pertiche e battendo sui rami degli alberi tentavano la cattura notturna di qualche uccello. Ricordo quando, muniti di lume e fiocina, andavamo a pigliar le rane che numerose gracidavano nei fossi dove l'acqua non era stata ancora avvelenata dai diserbanti. E ricordo i ferretti pronti a scattare che noi ragazzi, in certe fredde giornate invernali, coprivamo con un po' di neve spargendo attorno briciole di pane per attrarre i passeri affamati. Un “gioco” crudele e antico, per il quale non provavamo alcun rimorso.

    Caccia agli uccelli con fuochi. Olio di Jean-Francois Millet (1814-1875)

    Col passare degli anni si cominciò a disporre delle prime armi da fuoco, e già nel Seicento i nostri popolani rivendicavano come un loro diritto, insieme alla “libertà di far cana, caretto, caresina, pescare, uccellare”, anche quello di “trar di schioppo”.
    Ragioni di organizzazione e di convenienza obbligavano a un lavoro di gruppo chi si dedicava alla pesca o alla raccolta della canna, mentre la caccia rimase un'attività individuale. Soltanto un ristretto numero la praticava per la vendita, tantissimi poveri invece con l'unico scopo di rifornire la mensa domestica, perché una fetta di polenta c'era magari sempre, ma un po' di carne lo si sarebbe visto altrimenti assai di rado, se non mai.
    “La caccia, grandissimo sostentamento... uno de' gran prodotti della popolazione in genere”, dichiarava don Francesco Mastini sul finire del Settecento. A disporre di uno schioppo erano perciò centinaia di uomini. Lo dimostrarono i fatti accaduti quando 426 capifamiglia elessero tre procuratori, incaricandoli di aprire una vertenza contro alcune famiglie di patrizi e lo stesso governo di Comunità. Affermavano di essere stati estromessi con la violenza, l'inganno e la colpevole imprevidenza degli amministratori locali da quasi tutte le valli ormai vendute ai patrizi, sulle quali fin dai tempi antichi al popolo era stato riservato l'usufrutto mediante il libero esercizio del vagantivo. Poiché occorreva il denaro per pagare gli avvocati, nei primi mesi del 1792 dilagarono nelle valli a pesca, a far canna e soprattutto a caccia: “Anche oggi ci saranno cento persone che nella tenuta Dolfin girano alla caccia con schioppo, con danno ai seminati...”, “Continuarono nella distruzione di lepri e fagiani...”, “Scomparsi i fagiani si continuò a portare a vendere all'osteria o al ponte delle Botti Barbarighe gli uccelli acquatici...”. Le Botti erano divenute un frequentato punto di raccolta, e del ricavato i procuratori consegnavano a ogni “tragante” 30 soldi giornalieri “per la polvere da schioppo e la polenta”, trattenendo il resto per gli avvocati. (1)

    La lepre. Jean Baptiste Siméon Chardin (1699-1779)

    Una conferma dell'importanza della caccia e del numero dei cacciatori la si trova nelle carte relative alla requisizione delle armi da fuoco ordinata nel luglio del 1797 dal generale francese Baraguey d'Hilliers. Vennero raccolti circa quattrocento schioppi, senza contare quelli posseduti dagli abitanti di Rottanova, Cona, Foresto e Cantarana, requisiti in precedenza e portati a Conselve o a Padova. Stavolta c'era però la promessa che sarebbero rimasti in deposito a Cavarzere e restituiti a tempo debito. Una promessa di lì a poco smentita, con l'ordine di spedire tutte le armi a Legnago, trattenendo soltanto cento fucili per la guardia nazionale. I nostri municipalisti, “commossi dalla situazione di tanti infelici che colla perdita dello schioppo perdevano il pane” e limitandosi nella richiesta per non vedersela respingere, implorarono allora dal generale di poter trattenere altri duecento fucili: “Duecento famiglie traggono il loro sostentamento dalla caccia”. Baraguey si mostrò comprensivo e generoso, tuttavia avvicinandosi il tempo della caccia concesse di distribuire soltanto cento fucili. Ma con quale criterio farlo? I municipalisti affidarono ai parroci il compito di rilasciare un'attestazione di povertà unicamente ai “poveri indigenti, bisognosi della caccia”. Nella speranza di tener basso il numero dei richiedenti uno schioppo, venne pubblicato anche un avviso rivolto a coloro che potevano attendere una seconda distribuzione: “Cittadini, che non ne avete bisogno, non tentate di togliere il pane a' vostri poveri fratelli, che sono in circostanze più critiche”. Contrariamente alle attese, a disputarsi il sorteggio di 87 schioppi disposti in bella fila sulla loggia del Municipio (gli altri 13 il comandante francese distaccato in paese aveva preteso di consegnarli a suo piacimento) si presentarono circa trecento uomini, tutti muniti della fede di povertà che i parroci non avevano avuto cuore di negare a nessuno.
    Giunse il tempo della caccia senza che altri fucili venissero distribuiti e allora i popolani si presentarono tumultuando ai nostri municipalisti, pretendendone da loro la restituzione. Mandarono poi due rappresentanti a Venezia per parlare, ma inutilmente, al generale francese. Il quale, col pretesto di tenere a freno quei sediziosi, colse l'occasione per spedire a Cavarzere quasi 280 soldati in aggiunta alle due compagnie che già da tempo erano acquartierate da noi, mantenute e alloggiate a spesa della Comunità. (2)


    In quello scorcio del Settecento la cacciagione consisteva dunque in lepri, fagiani, uccelli di passo e soprattutto uccelli stanziali come le sforzane (gallinelle d'acqua). Queste ultime sono spesso citate nei documenti; a settembre e ottobre, belle grasse, davano un arrosto delizioso. Ma c'era stato un tempo in cui i valligiani potevano ambire prede ben più grosse. Il contratto che nell'agosto del 1654 regolava la cessione ai nobili Pisani dei beni comunali posti fra San Pietro e il Gorzone prevedeva infatti che fossero “riservati alli habbitanti e poveri della Terra (cioè di Cavarzere) le raggioni di pescar, far cana, caretto, pavera e caresina... e altre, cioè tirar di schioppo, e andar a cacciar cingiali e caprioli”.
    Il modo in cui in quegli stessi luoghi, ma tre secoli prima, i nostri cacciatori usavano affrontare i cinghiali lo trovo in un poemetto scritto verso il 1375 dal veneziano Giovanni Girolamo Nadal. La famiglia Nadal possedeva dei mulini in territorio cavarzerano, fra Adige e Torre delle Bebbe, e nel poeta era vivo il ricordo di battute di caccia alle quali aveva assistito. Ne dà infatti una suggestiva descrizione nel poemetto Leandreide, dove narra l'amore sfortunato di Ero e Leandro, protagonisti di un antico mito greco. Abitavano sulle opposte rive dell'Ellesponto (lo Stretto dei Dardanelli): Ero, sacerdotessa della dea Afrodite, viveva a Sesto, Leandro invece ad Abido, sulla costa asiatica. Ogni sera l'ardimentoso giovane attraversava a nuoto lo stretto per incontrare segretamente Ero, che per aiutarlo ad orientarsi accendeva un fuoco su un'alta torre. Ma una notte, mentre già Leandro nuotava verso Sesto, scoppiò una tempesta, il vento spense il fuoco e il giovane senza più una guida, disorientato nell'oscurità, sfinito per la violenza delle onde, affogò. Quando Ero lo seppe, si gettò dalla torre. (3)

    Ero accende il fuoco. Dipinto di Edward Burne-Jones (1833-1898)

    Ero e Leandro. Dipinto di Domenico Fetti (1589-1623)

    La disperazione di Leandro, che sente le forze mancargli, e con rabbia e sgomento avverte prossima la morte non sapendo più dove dirigersi, viene accostata dal Nadal a quella di un cinghiale, stretto fra le fiamme e il ferro dei cacciatori che l'aspettano al varco.

    E quale quando, per andare in caccia,
    Cavargerani accendeno il canedo
    e il vento per le cane il foco caccia,

    a le ripe de l'acqua chi cum spedo,
    chi cum sua nave attende il cengiaro,
    desiroso de darli, com'io creddo,

    e 'l porco, veramente non ignaro
    de sua fortuna, quinci e quindi fugge,
    sentendo non poter farne riparo;


    cotal Leandro fra sé istesso lugge,
    onde possa iscampar non perpendendo,
    e qual leone irato crida e rugge.


    (E come quando, per andare a caccia,
    i cavarzerani incendiano il canneto
    e il vento spinge il fuoco fra le canne,

    ai bordi dell'acqua chi con lancia
    e chi con una sua barchetta attende il cinghiale,
    impaziente di colpirlo, come credo,

    e il porco, veramente non ignaro
    della sua sorte, fugge qua e là
    sentendo di non poter salvarsi,

    così Leandro piange fra sé stesso,
    non vedendo in qual modo possa scampare il pericolo,
    e come leone irato grida e urla.)

    La caccia al cinghiale. (Miniatura francese del XIV secolo)

    Il Nadal ci dice dunque che nel Trecento i popolani cacciavano i cinghiali – animali forti, aggressivi, pericolosi – in gruppo e sfruttando accortamente la particolarità dell'ambiente. Col probabile aiuto dei cani li stanavano dalla boscaglia spingendoli in un canneto, al quale appiccavano il fuoco. Terrorizzate dalle fiamme che avanzavano, le bestie finivano per trovarsi in difficoltà su fondi acquitrinosi o in specchi d'acqua, che ne rallentavano la fuga verso i terreni solidi, dov'erano in attesa uomini armati di lance. Una manovra in parte raffigurata in una miniatura francese della stessa epoca: mostra gli animali ridotti ormai all'acqua e facile preda di un uomo con balestra.
    Altrove, il cinghiale veniva cacciato soltanto dai nobili, e del resto sembrava nato apposta per i conviti dei ricchi signori, tant'era saporita la sua carne. La quale doveva sembrare assai più gustosa sulla tavola dei nostri popolani; ben pochi di loro – immagino – possedevano un “porcho domestico”, ma se la caccia andava bene potevano avere una porzione del “porcho cengiaro”, come lo chiamavano, e non importava che testa e zampe fossero riservate al Doge.
    L'antico nome del cinghiale è rimasto nel nostro dialetto: porsèo sengiaro, ed ha una connotazione di bruttezza e volgarità. Aveva, per esempio, on muso da porsèo sengiaro il repubblichino che durante un rastrellamento il 1° novembre 1944, giornata di Tutti i Santi fredda e piovigginosa, sotto la minaccia delle armi e sordo ad ogni spiegazione tenne contro un muro per quasi cinque ore mio padre, che tornava dall'ospedale di Ca' Matte dove avevano ricoverato d'urgenza mia madre.

    Carlo Baldi, 29 ottobre 2016




     NOTE
    1 - Vedi il capitolo “Una iniziativa dei poveri (1786-1794)” in C. Baldi, “Cavarzere 1797. Quando arrivarono la Libertà e l'Eguaglianza”. Tiengo, 1987. Vol. I, pagg. 27-37.

    2 - Vedi il capitolo “La requisizione delle armi” in C. Baldi, “Cavarzere 1797. Quando arrivarono la Libertà e l'Eguaglianza”. Tiengo, 1989. Vol. II, pagg. 13-19.

    3 - Giovanni Girolamo Nadal, “Leandreide”, a cura di Emilio Lippi. Antenore, Padova, 1996. 

    Lascia un commento