C'era una volta la Distilleria

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    C'era una volta la Distilleria
    Testi di Carlo Baldi, foto di Duilio Avezzù
    Arcari Editore, Mogliano Veneto, 1992. Pagine 142


    Dal libro...

    Le costruzioni abbandonate a un silenzioso disfacimento, ma teatro un giorno di operosa attività, comunicano sempre un senso di disagio, se non di tristezza. Forse perché avvertiamo in esse un segnale della caducità di tutto ciò che ciascuno di noi tenta o ha tentato di costruire, un riferimento troppo esplicito all'inesorabile passare del tempo. Ed è questo un incontro che a Cavarzere capita spesso di fare, a ricordarci i ripetuti momenti di crisi sofferti in anni ancora recenti dalla nostra comunità.
    Quante volte ad esempio non ci imbattiamo nelle diroccate, infracidite casette abbandonate dopo l'alluvione del 1951? Sperdute fra i campi o schierate presso gli argini del fiume, talvolta quasi appollaiate su quelli dei canali, così basse e minuscole, con i camini pencolanti e le occhiaie vuote delle finestrelle, parlano di una vita tirata con i denti e per fortuna finita. Parlano di un distacco doloroso che portò tanta della nostra gente ad inseguire, lontano dalla propria terra, il sogno di un'esistenza più dignitosa. Una scelta piena di coraggio ed insieme disperata, ma alla fine positiva perché compiuta in vista d'un avvenire meno incerto, al riparo dai pericoli della natura se non proprio dalle perenni ingiustizie della società.
    Il messaggio che le vecchie palassine ci trasmettono – d'estate il verde abbraccio del granoturco sembra proteggerle e restituirle al vivo respiro della campagna, mentre il sole accende sugli intonaci le tracce sbiadite delle tinte d'un tempo: i rosa, gli azzurri, i gialli ranciati – non è tuttavia paragonabile a quello che ci viene dalle “rovine” della Distilleria. E non tanto per la grandiosità di queste, quanto perché raccontano di una sconfitta e non d'una scelta di chi ci lavorava. Esse non sono lì a testimoniare un punto di partenza per un domani migliore, bensì l'amara conclusione, avvenuta fra preoccupazioni e rabbie, d'una realtà economica di primaria importanza che aveva interessato almeno tre generazioni di nostri concittadini.
    Chiunque giunga a Cavarzere da San Pietro o da Ca' Briani, dal raccordo della Romea oppure risalendo il Gorzone lungo la strada arginale, ancora lontano scorge gli articolati impianti della Distilleria dominare il paesaggio urbano alla sinistra del fiume. Tante volte dipinta nel corso delle estemporanee di pittura per le sue ciminiere, per il gioco degli incastri degli edifici, alti sopra la linea erbosa degli argini, essa era un tempo parte vitale del paese. Per decenni aveva garantito sicurezza e tranquillità a centinaia di famiglie, legando a sé i lavori delle campagne e numerose attività dell'indotto. Ora, inattiva da oltre dieci anni, preda di una totale spoliazione, sembra un gigantesco grigio relitto fra Adige e Gorzone. Se ne sta lì come un rimprovero per tutto ciò che forse si sarebbe potuto tentar di fare e non fu tentato, per quanto si dice di voler fare ma si tarda a realizzare, mentre il degrado produce guasti sempre maggiori.
    C'è comunque l'intenzione dichiarata di riportarvi il lavoro, e questo tra l'altro significherà ridare vita e tono all'intera zona di San Giuseppe, sulla quale lo stato di cose attuale si riflette e grava in maniera evidente.

    (“C'era una volta la Distilleria”, pagg. 17-18)


    Il bassorilievo bronzeo mostra le varie fasi di sviluppo della distilleria dal 1907 al 1957. In primo piano sacchi di zucchero e bidoni per l'alcool.


    Il 10 dicembre 1959, al suono della sirena delle quattordici, 448 avventizi invece di uscire e andarsene a casa si fermano in fabbrica. Non usciranno di lì – dichiarano – fino a quando Montesi non s'impegnerà a terminare la lavorazione e non comunicherà la data di ripresa del lavoro.
    Da qualche giorno si è concluso presso il Teatro Comunale l'ennesimo convegno sui mali che affliggono Cavarzere. I partiti e i molti parlamentari presenti sono stati d'accordo nell'invocare la sollecita approvazione della legge speciale, che dovrebbe ravvivare la spossata economia della nostra “disgraziata cittadina”. Nei campi tutto è fermo, non ci sono lavori pubblici in corso, il commercio langue ed ecco, ancora una volta, l'immotivata interruzione d'ogni attività nella fabbrica, fissata per il 12 dicembre.
    Pare addirittura che per il prossimo anno Montesi intenda chiudere per sempre lo stabilimento e trasportare tutto a Fano, dove ha appena costruito un nuovo zuccherificio, nel quale il melasso può essere trattato con un procedimento moderno a base di resine sintetiche, largamente economico perché più rapido e richiedente poca manodopera.
    Si percepisce l'imminenza d'un “disastro irreparabile”. In un simile frangente tutti in paese si sentono solidali. Nelle grandi manifestazioni di piazza, nei cortei cui partecipano i tantissimi disoccupati, nei brevi scioperi a sostegno degli avventizi, nei convegni che si organizzano, si chiede l'ammodernamento degli impianti dello zuccherificio e il ritorno della lavorazione a “ciclo continuo”: bietole e melasso. Si vorrebbe insomma riavere la tranquillità e la sicurezza d'un tempo, quando gli operai non erano costretti a lottare senza sosta per ottenere qualche mese di lavoro.
    I giorni passano senza che si profili qualche soluzione. Prima di dar corso a qualsiasi iniziativa Montesi pretende che gli avventizi escano dalla fabbrica. Essi, al contrario, tutti uniti (quelli iscritti ai partiti di sinistra come i trenta iscritti alla DC) insistono perché s'impegni a riprendere la “barite” a marzo, in tempo per smaltire le riserve di melasso prima dell'assegnazione del nuovo quantitativo di saccarosio per il 1960/61, che rischia altrimenti di venire ridotto.
    L'industriale fa presente che c'è una forte sovrapproduzione di zucchero, lascia capire che non intende lavorare il melasso rimasto. Al di là della scusa addotta, egli segue in realtà la logica inflessibile dei grandi imprenditori: tagliare i rami secchi o non sufficientemente produttivi e potenziare quelli più vitali del suo impero, senza lasciarsi coinvolgere da “sentimentalismi”.
    Ed è proprio questo che a Cavarzere gli si rimprovera da qualche anno, prima con sorpresa e qualche aspettazione, poi con rabbia palese. Come può veder morire quella che è stata la sua prima fabbrica? Come può non tener conto della sorte di tanti operai che pure gli hanno dato una mano in momenti per lui difficili? Come può anteporre le aride ragioni del profitto alle condizioni miserevoli di tante persone, anzi di un paese intero? Contro di lui si concentra allora la rabbia accumulata dalla gente per il groviglio di difficoltà vecchie e nuove da cui è presa...
    É ormai la vigilia di Natale. Un Natale di tanti anni fa, diverso da quello chiassoso e sprecone d'oggi, pieno di luci, colori e soldi da spendere a qualsiasi costo. “In paese non c'è aria di festa. Niente abiti natalizi e decorazioni speciali nelle vetrine dei negozi”. Anzi, a una certa ora, le serrande vengono abbassate in segno di solidarietà.
    Nella grande fabbrica gli avventizi sono rimasti soli, dopo che Montesi ha posto in ferie i lavoratori fissi, colpevoli forse di aver manifestato in appoggio ai colleghi. La notte dormono fra le presse, nelle celle della barite. Da due giorni sono giunti carabinieri e polizia. La loro presenza suscita forti preoccupazioni, si teme un'irruzione nello stabilimento; sostano davanti ai cancelli e presso la portineria, dove si affollano i famigliari, i parenti, gli amici che portano coperte, indumenti e cibo. Un cibo povero, composto di polenta, di schie, di anguèe, annota il cronista. “Qualche donna ha nella sporta di paglia una bottiglietta di caffè caldo, ma con pochissimo zucchero, perché lo zucchero, a Cavarzere, è un genere di lusso...”
    Domani sarà Natale e si aspetta una qualche novità, un gesto generoso che sciolga quella situazione assurda, che rimandi tutti a casa come sarebbe bello in simili giorni. Nella mattinata si diffonde la voce che il vescovo è finalmente riuscito a strappare una promessa, una data a Montesi. Un'illusione di breve durata. No, neanche il vescovo, che pure avrà fatto leva sui concetti di pace, di riconciliazione, di giustizia legati alla festa imminente, ha smosso l'industriale. Che il gesto di riconciliazione lo compiano per primi gli avventizi sloggiando dalla sua fabbrica; quanto alla ripresa del lavoro, tutto dipenderà dagli accordi che dovranno stabilirsi circa i quantitativi di zucchero da produrre.
    La giornata di Natale scorre tranquilla. Giungono da varie città camion con pacchi dono inviati da associazioni solidali con gli operai in lotta. I bambini, accompagnati a far gli auguri, entrano in fabbrica per abbracciare i papà, i fratelli, i nonni. Forse in conseguenza di questo episodio si adotta allora un nuovo provvedimento: i picchetti della polizia proibiscono nella maniera più assoluta che qualcuno entri ancora nello stabilimento.
    Così passano lenti gli ultimi giorni di dicembre, mentre in paese viene organizzato un altro convegno e si continua a discutere. Ma l'interlocutore principale non è neppure rintracciabile: si dice che se ne sia andato alle Canarie, a godersi il sole lontano da ogni fastidio. A Cavarzere invece, l'ultimo giorno dell'anno, una fitta nebbia avvolge ogni cosa, anche i colloqui che avvengono attraverso la rete di recinzione della fabbrica, davanti alla quale sostano donne e bambini...

    (“C'era una volta la Distilleria”, pagg. 49-51)


    Davanti alla distilleria


    Recensioni e articoli:

    U. Pavanato, La Nuova Venezia, 22 febbraio 1992

    R. Badiale, Comunicazione di un lettore, 6 marzo 1992

    C. Gibin, Notiziario bibliografico, n. 10, aprile 1992

    P. G. Tiozzo, Chioggia. Rivista di studi e ricerche, n. 9, maggio 1993

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