Cavarzere 1797. Quando arrivarono la Libertà e l'Eguaglianza. Volume 1

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    Cavarzere 1797. Quando arrivarono la Libertà e l'Eguaglianza
    (Documenti di storia cavarzerana 2)
    Carlo Baldi
    Tipografia Tiengo, Cavarzere, 1987. Vol. I, pagine 182


    Dal libro...

    C'era un volta da noi un castello. Si trattava di una robusta cinta muraria a pianta di quadrilatero irregolare, munita di alcune torri; racchiudeva in sé l'antico duomo, poco più grande dell'attuale Scuoletta.
    Un fossato, chiamato “Fossa del castello”, usciva dall'Adige all'altezza dell'odierno Corso Matteotti, percorreva press'a poco Via dei Martiri e rientrava nel fiume dopo Piazza Manin. Vi scorreva veloce l'acqua del fiume, per cui tanto il castello quanto il borgo che gli si raccoglieva attorno sorgevano su un'isola. Oltre il fossato, lungo i terreni alti che costeggiavano l'Adige, si aggruppavano per breve tratto casupole di mattoni alternate a casoni col tetto di canna.
    Il castello faceva parte del sistema difensivo di Venezia, si trovò di quando in quando coinvolto in fatti d'arme e venne anche espugnato. Accadde così che ai cronisti di secoli lontani capitasse talvolta di nominare il nostro paese.
    Dopo la guerra contro i Collegati di Cambrai, agli inizi del Cinquecento, superato vittoriosamente un periodo davvero terribile, Venezia non ebbe più nemici in terraferma. Il castello non servì più a nulla, la guarnigione che vi stanziava venne col tempo ritirata e ai cronisti mancò ogni occasione per accennare ancora a Cavarzere.
    Si concludeva in questo modo la prima parte della storia del paese. Quella che si continua a ricostruire mettendo insieme i pochi tasselli conosciuti, cioè le rare citazioni d'epoca medioevale o rinascimentale: un condensato di invasioni, scontri, incendi, distruzioni, scene raccapriccianti, e poi alluvioni, terremoti, pestilenze. Un serrato succedersi di sciagure – accadute in realtà nel corso di un intero millennio – le quali danno un'immagine distorta e disperante della “storia” di Cavarzere, bene in sintonia, d'altronde, con tragici recenti avvenimenti. E tutto figura accaduto all'ombra di quel castello, diroccato e riparato chissà quante volte. Il “Castello”, questo fantasma riproposto ancor oggi come simbolo del lontano passato di un paese cui è toccato in sorte di non essere riuscito a conservare pressoché nulla di ciò che era. Neppure, troppo spesso, il ricordo.
    Mentre l'ormai inutile fortificazione andava lentamente sgretolandosi per l'incuria degli uomini e le offese del tempo, trovarono da scrivere su Cavarzere i periti e gli idraulici, i notai, gli avvocati, i podestà. I primi per stendere rapporti e preparare disegni, per proporre rimedi all'angoscioso problema delle inondazioni e della regolamentazione delle acque; i secondi per registrare i contratti d'acquisto delle valli cedute ai patrizi veneti, gettatisi ad accaparrarsele nella speranza di poterle bonificare; i terzi per rimestare nelle interminabili e continue liti sull'uso del vagantivo nate in seguito agli acquisti dei nobili; gli ultimi per scrivere o accompagnare al governo veneziano suppliche in difesa dei poveri, per invocare provvedimenti contro i prevaricatori, per informare di una situazione locale dagli aspetti talvolta sconcertanti.
    Negli scritti di queste persone, dispersi e celati negli archivi, c'è, a pezzi e pezzetti, la seconda parte della storia di Cavarzere: quella della sua gente e del suo ingrato territorio. La sua storia più vera, quindi, perché non parafrasata su quella di Venezia, né abbellita impropriamente dal riflesso degli ori o dall'eco delle vittorie della città lagunare. Una storia che come è forse giusto o inevitabile avvenga per paesi come il nostro sembra in fondo ridursi ad un susseguirsi di cronache, le quali ripropongono, anno dopo anno, continue variazioni sui temi costanti della povertà, della violenza, di un ambiente dominato dalla precarietà e dall'insicurezza.
    Agli storici di un tempo, tutti presi dagli intrighi intessuti dai potenti, dai successi o sconfitte dei loro eserciti, della povera gente importava poco, ed è anche per questo che trecento anni di vita cavarzerana, dal Cinquecento all'Ottocento, sembrano ingoiati nel nulla. Da noi tiravano a campare coloni miserabili, cannaroli rotti dalla fatica, pescatori e cacciatori in lotta con chi tentava di allontanarli dalle valli: una turba insomma, chiamata “Università dei poveri”, drammaticamente alle prese con la sua fetta di fame quotidiana.
    Ecco allora il perché di questa mia seconda ricerca: far conoscere e documentare un'altra piccola parte delle vicende e delle “notizie intime” del nostro paese in un periodo del quale non si sa pressoché niente.
    Ho scelto come momento centrale il 1797, un anno importante per l'Italia e diciamo pure fatale per noi Veneti, visto come andarono poi a finire le cose. In quest'opera di scrupoloso recupero, condotto quasi interamente su fonti manoscritte inedite, ho incontrato poveri e ricchi, analfabeti e colti. Mi sono imbattuto in gente segnata nell'animo dalla miseria e dalle ingiustizie patite, ed anche in uomini che seppero cogliere il senso del confuso momento storico che stavano vivendo, attenti nel valutare il da farsi nell'incalzare di avvenimenti eccezionali...

    (“Cavarzere 1797. Quando arrivarono la Libertà e l'Eguaglianza”, Vol. I, pagg.7-9)





    Manifesto della Municipalità Provvisoria di Cavarzere pubblicato nel 1797


    Recensioni e articoli:

    L.Broggio, Il Paese, anno IV, n.1, gennaio-febbraio 1988

    La Nuova, 16 gennaio 1988

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