Notizie sulla famiglia Danielato

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         Nei documenti e nelle cronache di Cavarzere dal XVI al XVIII secolo ricorrono i nomi di un piccolo gruppo di famiglie, tutte possidenti beni stabili, i cui membri per antica consuetudine si alternavano nel ricoprire le cariche periodicamente assegnate dal Maggior Consiglio di Comunità. A queste famiglie (Mainardi, Banzato, Molin, Rubinato, Piasenti, Salvadego, Preguerra, Mastini, Nicodemo, Augusti...) quella dei Danielato si aggiunse per ultima.
         Nel 1778 Giuseppe Danielato era massaro alle chiese, un incarico di secondaria importanza e senza compenso, ma nel 1797 lo troviamo come giudice fra i sei componenti la Banca dei Deputati, l'organismo che sotto la sorveglianza del podestà amministrava il paese. Ed è proprio verso la fine d'aprile di quell'anno fatale che il podestà, prima di fuggire a Venezia spaventato per le bellicose dichiarazioni lanciate dal generale Bonaparte contro la Repubblica e i nobili, delegò Danielato a sostituirlo durante la sua … assenza.
         Il 16 maggio, avuta la certezza che al  governo aristocratico veneziano era succeduto il democratico, Danielato propose ai colleghi della Banca di dimettersi subito e di nominare quattro cittadini i quali eleggessero dodici persone cui affidare le incerte sorti del paese. Così si fece, e nel giro di qualche ora Cavarzere si trovò pacificamente “democratizzata” prima dell'arrivo dei “liberatori” francesi. Naturalmente Danielato non era fra gli eletti, né in seguito gli fu assegnato uno dei molti incarichi dispensati dalla Municipalità provvisoria.
         Commerciante, con negozio di merceria al Canal di S. Maria, proprietario di sei campi, con altri terreni forse in affitto dal momento che pagava le tasse anche per tre boarie, Danielato in tempi che s'annunciavano burrascosi decise, a differenza di altri, di lasciar perdere la politica per badare soltanto ai propri affari.  
         Quasi certamente era suo figlio Andrea Danielato (1780-1859), il giovane merciaio che incontriamo la prima volta qualche mese dopo, il pomeriggio del 29 ottobre 1797. Davanti al portale del Duomo cercava  di calmare i popolani di Cannaregio, pescatori e cannaroli. Come tutti gli uomini di Cavarzere erano stati chiamati a votare per scongiurare il passaggio dell’ex Repubblica Veneta all’Austria, cosa che Bonaparte aveva già deciso. Prima di entrare in chiesa, dove si sarebbero svolte le votazioni, avrebbero dovuto mettere una croce sotto il proprio nome, e questo non intendevano farlo. Immaginavano un tranello per prenderli in nota, arruolarli e mandarli poi alla guerra contro l’Austria.
          Un municipalista, salito su uno “scagno”, li arringava per convincerli ad entrare, ma quelli non volevano sentir ragione, gli rispondevano a “ululati e fischiate”. Urlavano che erano stufi, che con la Libertà e l’Eguaglianza si era continuato come sempre “a mangiar tutto ai pover’uomini”, che le avevano provate tutte, e prima di finire “in ghebba” volevano provare anche l’ultima: volevano vedere un po’ com’erano questi Austriaci, se con loro si andava finalmente meglio. Perciò gridavano “Viva l’Impero!”. E ad Andrea, ragazzo sveglio e avveduto, che con i soldati francesi lì intorno si rendeva conto che non c’era proprio da scherzare a dir certe cose, e si dava da fare per zittirli, avevano intimato che se ne stesse buono e zitto lui, se non voleva che gli tagliassero il tabarro.
         Erano cominciati anni tumultuosi, di continue guerre con l'inevitabile strascico di spoliazioni e pesanti tasse. In quegli anni di radicali mutamenti sociali, la borghesia iniziò a subentrare ai nobili nella proprietà di campagne e zone vallive. Un fenomeno continuato nell’Ottocento, quando sempre più spesso i nomi altisonanti delle casate veneziane cedettero il posto a quelli oscuri di gente che alla caduta della Repubblica Veneta possedeva ben poco. Come, da noi, il caso del notaio Marc’Antonio Mainardi: proprietario nel 1797 di soli 38 campi, ne possiederà quasi cinquemila nel 1831, con annessi palazzi, oratori, case e abitazioni agricole.

    Facciata del palazzo Danielato distrutto dai bombardamenti nel 1945 (coll. Carlo Baldi)
     
         Non molto diversa la vicenda della famiglia Danielato. Andrea e poi suo figlio Bernardo (1804-1881) la portarono ad essere intorno alla metà del secolo tra le più influenti di Cavarzere, per prestigio e ricchezza, arrivando a possedere tra l'altro la vasta tenuta di Ca’ Salvioni e Bellina, i cui terreni erano dei migliori, e il bel palazzo antico vicino al Duomo, che pare fosse appartenuto ai Molin.
         Presente in Consiglio comunale già durante la dominazione francese, Andrea fu tra gli amministratori del paese anche sotto l'Austria, senza però trascurare la sua attività: la vendita dei prodotti del locale artigianato fondato sulla lavorazione delle canne e delle erbe palustri.
         Ancora in un documento del 1852 Andrea risulta “commerciante di manifatture”. Per Cavarzere si stava allora avviando un periodo esaltante e complicato: le prime riuscite operazioni con le macchine idrovore che trasformavano le zone paludose in fertili campi suscitavano insieme l'entusiasmo dei proprietari e il forte risentimento di migliaia di popolani.  Una realtà che poneva i Danielato, padre e figlio, in una situazione difficile. Da un lato favorevoli al risanamento del territorio sia come amministratori – poiché in esso vedevano il futuro del paese, – sia come proprietari di fondi vallivi e soci del Consorzio di bonifica Tartaro Osellin, che Andrea presiedeva nel 1850 e la cui nascita aveva anzi preparato già nel secondo decennio dell'Ottocento. Dall'altro lato consapevoli che il procedere delle bonifiche annunciava la fine della loro attività di imprenditori, senza contare poi il disagio di tanta gente che con la perdita delle valli si vedeva sottrarre la prima fonte di sussistenza. Un disagio di cui come amministratori dovevano pur rendere conto e che avrà risvolti pericolosi soprattutto negli anni in cui Bernardo sarà sindaco del paese.   
         “Il nome di Andrea Danielato non corre alla memoria dei Cavarzerani senza un palpito di riconoscenza. Dalla caduta del Governo napoleonico fino a pochi anni addietro resse la patria sua con saggio consiglio, promuovendone il risorgimento, e quale deputato dirigendola a quella prosperità colla quale oggi la vediamo primeggiare nella via del progresso. Il suo nome suona onorato e caro, e forma il vanto principale della sua famiglia, nella quale lasciò ereditarie le sue virtù”. (1)
         A suo ricordo rimase l’altare maggiore del Duomo, da lui offerto  nell’ampia gradinata marmorea fino alla predella e completato dalla amministrazione comunale, secondo la dicitura posta sul retro dell’altare stesso: “HUC USQUE CIRCUM ANDREA DANIELATO – SUPERIUS COMUNITAS”. Quando morì, stava per iniziare la seconda guerra d'Indipendenza e il Veneto era ancora soggetto all’Austria, verso la quale in casa Danielato  non si nutriva alcuna simpatia. Quando il 23 marzo 1848 (lo stesso giorno in cui Carlo Alberto dichiarava guerra all'Austria) fu spedito da Cavarzere l'atto di adesione alla Repubblica Veneta Democratica proclamata il giorno prima, anche da noi, come a Venezia, si inneggiò alla ritrovata libertà, all'unità d'Italia. Da allora per tre mesi il paese fece parte della risorta Repubblica guidata da Daniele Manin. Il 9 giugno si votò per l'assemblea dei deputati e Bernardo Danielato fu tra i sei eletti di Cavarzere. Nessuno di loro ebbe tuttavia modo di partecipare ai lavori dell'assemblea veneziana: trascorsi pochi giorni le truppe austriache occuparono infatti il paese impedendo ogni contatto con la città ormai assediata.
         Fu probabilmente in quei giorni di palese entusiasmo e poi di prudenti contatti con altri patrioti che si crearono le premesse per il matrimonio della figlia di Bernardo, Teresa (1829-1888), con il conte Paolo Labia, celebrato il 2 giugno 1851.
         Capo della celebre famiglia veneziana, il conte era proprietario della Frattesina, una tenuta di 1.600 campi a Fratta Polesine, e di altri estesi possedimenti sparsi un po’ dovunque. Dopo le nozze i due giovani trascorsero i primi mesi ad Adria; in seguito si stabilirono a Venezia, la città che il nonno del conte aveva abbandonato nel 1797. Aveva lasciato il fastoso palazzo in Campo S. Geremia, affrescato dal Tiepolo, cercando rifugio come altri nobili a Vienna, dove aveva sposato Caterina Schneider. Laggiù era nato il padre del conte Paolo, nelle cui vene dunque scorreva in parte sangue austriaco.
         Carlo Bullo, nipote di Bernardo Danielato, ha lasciato scritto che la cugina era donna di alto sentire, la quale al fascino della bellezza univa una pronta intelligenza. Teresa divenne in breve tempo “centro di elettissima società”. “I più distinti patrizi, i più celebri artisti, i più chiari ingegni di Venezia e di fuori convenivano nelle sue sale. Illustri e vecchi scienziati trovavano gradevole ricreazione nel suo conversare arguto e versatile, pieno di vita e di brio. Ma sotto le forme di donna gentile batteva un ardente cuore di patriota”. (2)

    Notturno dedicato a Teresa Danielato (coll. Carlo Baldi)

          Un amor patrio che la giovane contessa aveva appreso dalla famiglia, ma una grande influenza su di lei ebbe pure il marito, del quale conviene dare qualche ulteriore notizia. Rimasto orfano di padre a sette anni, Paolo Labia era cresciuto ad Adria, dove la madre Elena Bonati aveva sposato in seconde nozze il nobile Bortolo Lupati. A Fratta Polesine gli era capitato d’incontrare chi aveva conosciuto i carbonari locali arrestati nel 1819 insieme al conte Oroboni, rinchiuso poi nello Spielberg, dov'era morto. Aveva anche incontrato chi teneva vivo in sé e cercava di comunicare lo spirito di quei primissimi fatti del nostro Risorgimento.
         Ma era principalmente nella sua casa che il ragazzo aveva assorbito le idee di libertà e di riscatto dal governo austriaco. Bortolo Lupati, amico di Tito Speri e di Angelo Scarsellini, era iscritto alla “Giovine Italia”. Nel 1848 frequentava l'Università quando in seguito a una sua coraggiosa reazione verso un generale austriaco erano scoppiati a Padova i tumulti dell'8 febbraio. Che il coraggio non gli mancasse ne diede di lì a poco replicate prove durante l'assedio di Venezia, combattendo spavaldamente nel punto più pericoloso, il cosiddetto “piazzale” sul ponte ferroviario, quotidiano bersaglio dell'artiglieria nemica. Alla caduta della città, nell’agosto dell’anno seguente, Lupati e gli altri patrioti adriesi avevano ripreso a cospirare, alcuni ricercati dalla polizia austriaca, altri sorvegliati. Qualcuno di essi fu tratto in arresto più d’una volta e anche il diciannovenne Labia conobbe nel 1850 il carcere.
         Le irruzioni nelle case dei sospettati si ripetevano, e non fu risparmiata neppure l’abitazione dei Lupati. Tuttavia “...il ritrovo dei cospiratori mazziniani non potè essere scoperto, celato com’era fra un labirinto di paludi. Avevano essi la sede di convegno presso Cavarzere, in casa del commendatore Bernardo Danielato. Ivi il Lupati, il Pegolini, il conte Labia e altri venivano a ricevere ordini segreti dallo Scarsellini, che celato sotto le spoglie di un mercante di stuoie teneva il comitato di Adria in rapporti col comitato centrale di Venezia”. (3)
         La storia d’amore fra Teresa e il conte era forse sbocciata nel clima romantico di quei periodici incontri, furtivi e rischiosi. Qualche tempo dopo lo Scarsellini, andato a Londra per incontrare Giuseppe Mazzini e ritornato col proposito di un’azione particolarmente ardita, venne arrestato dalla polizia austriaca.  Condannato all’impiccagione, salì sul patibolo la mattina del 7 dicembre 1852 e fu uno dei “Martiri di Belfiore”. Anche il Pegolini fu arrestato, ma sfuggì alle guardie che lo scortavano a Venezia. Nascostosi nei canneti presso Cavarzere, gli riuscì poi di riparare in Piemonte, mentre il tribunale militare lo condannava a morte in contumacia.
        A Venezia il conte Labia continuò a mantenere i contatti con i compatrioti emigrati, non facendo mancar loro il suo aiuto. Nel marzo del 1859 la contessa fu promotrice di una originale iniziativa. Erano i giorni in cui affluivano nel Piemonte centinaia di volontari armati, che andavano raccogliendosi a ridosso del confine col Regno Lombardo Veneto. Una provocazione che l’Austria non poteva tollerare a lungo, per cui tutti sentivano come la guerra fosse ormai imminente. In un simile clima di eccitata aspettazione Teresa e la contessa Maddalena Comello fecero la proposta di festeggiare l’anniversario della cacciata degli Austriaci dalla città nel 1848 ritrovandosi tutti in piazza S. Marco. L’idea piacque, la voce si diffuse e i veneziani accorsero all’appuntamento. Il 22 marzo si vide la piazza affollata di gente che radunatasi senza un apparente motivo passeggiava tranquilla, mentre numerose dame sfoggiavano vestiti nei quali risaltavano i colori della bandiera italiana. “A completare la festa moltissimi dei colombi di piazza svolazzavano su quella folla giuliva con la coccarda italiana appesa al collo”. A un certo punto scese in piazza insieme alla giovane moglie l'arciduca Massimiliano d’Asburgo, viceré del Lombardo Veneto e futuro imperatore del Messico. “All'apparire della coppia s'udì un sonoro: Fuori di Piazza! E la piazza in un battibaleno rimase deserta: la gente s'era tutta riversata sul molo e sulla riva”. (4) Un gesto che al mite e sensibile Massimiliano fece capire molte cose sui veneziani e influì forse su certe sue future scelte.
         Di lì a un mese ebbe inizio la seconda guerra d’Indipendenza. Il conte Labia lasciò il Veneto per combattere con Garibaldi, e l’anno dopo, ancora con il generale, partecipò alla Campagna di Napoli. Teresa  rimase dunque sola a Venezia. La polizia ne sorvegliava le mosse. Sospettava che tenesse relazioni con gli esuli e gli emigrati, fra i quali aveva il marito. E non si sbagliava perché la contessa, valendosi di amici e dei suoi dipendenti in Polesine, si adoperava per aiutare con ogni mezzo quanti tentavano di fuggire dal Veneto. “Per dodici volte fu violato il suo domicilio con severissime perquisizioni. I bracchi avevano fiutato la preda, ma questa più scaltra di loro sapea sfuggirne le zanne”. (5)
         Per i patrioti veneziani quel 1859 fu un anno ricco di emozioni. All’esultanza per le vittorie dei Piemontesi e dei Francesi seguì l’amara delusione per l’armistizio di Villafranca, concluso proprio quando il Veneto sembrava ormai prossimo alla liberazione. Poi gli avvenimenti s’erano succeduti in maniera imprevedibile, culminando il 17 marzo 1861 nella proclamazione del Regno d'Italia.
         Tre mesi dopo giunse improvvisa a Venezia – rimasta in mano austriaca – la notizia della morte di Cavour. “Moriva il conte di Cavour, e numerosissimi cittadini e signore vestite a lutto recavansi a San Marco ad assistere ad una messa in suo suffragio, volendo con questo dimostrare il cordoglio, e vieppiù affermare le aspirazioni di Venezia. Tutti questi colpevoli d’amor patrio furono multati in proporzione della loro importanza politica. Chi non pagasse la multa dovea scontarla col carcere in ragione di un giorno per 5 fiorini di multa”. (6)
         La contessa si trovava presso il padre a Cavarzere quando il 10 settembre 1861 le fu recato l’ordine che le intimava di pagare subito 100 fiorini d’argento – a tanto ammontava la sua multa, essendo responsabile di quella iniziativa – o sarebbe stata accompagnata dai gendarmi a Venezia. Si rifiutò di pagare.
         “Oggi [13 settembre] fu arrestata la contessa Teresa Labia e condotta a San Severo, onde scontare la pena inflittale di venti giorni di prigionia. Fu messa fra le detenute ordinarie e trattata come le delinquenti ordinarie... Chiamata dinanzi al commissario Grisogono, tentò costui tutti i mezzi per spaventarla e persuaderla a pagare. Riesciti vani i suoi sforzi procurò che il medico carcerario le facesse temere per la sua salute, la consigliasse di cedere ritornando a casa, perché ammalata non avrebbe potuto sopportare le durezze del carcere. Ma la Labia rispondevagli sdegnosamente con virtù antica “che ella era venuta per subire la sua pena e che si sentiva forte abbastanza per sopportarla”. Fu allora trattata come si trattano i ladri e peggio. Senza riguardo alla sua condizione, alle sue sofferenze, né al carattere politico del suo reato, venne cacciata in un oscuro camerotto fra detenute ributtanti”. (La Perseveranza, 16 settembre 1861)
         “La contessa Labia fu posta in libertà alla mezzanotte del giorno 2 ottobre. Essa ha sofferto molto in prigione, dove ebbe per compagne cinque questuanti, una prostituta, una ladra... Tutte le torture morali possibili furono poste in opera per indurre questa brava donna (sofferente anche  del fisico) a pagare la multa e a troncare una prigionia che il conte di Toggenburg troppo tardi si pentì di aver decretata” (La Perseveranza, 11 ottobre 1861).
        Negli ultimi giorni di prigionia Teresa aveva rifiutato anche le visite dei famigliari pur di evitare l'incontro con il Grisogono. Le sue sofferenze furono compensate dalle dimostrazioni di affetto e di simpatia che le vennero non solo da Venezia, ma da ogni parte d'Italia. (7)
         Altre due dame veneziane, le signore Gargnani e Secondi, avevano seguito l’esempio della contessa, ma erano state trattenute in carcere solo alcuni giorni. Teresa Danielato venne liberata di notte perché si volevano evitare dimostrazioni, che tuttavia vi furono. Essa ebbe “ovazioni, e fiori, e biglietti oltre a due mila... A Treviso fu incontrata dalle carrozze delle principali famiglie, e per ogni dove fu meritamente onorata. L’importo della multa fu elargito a’ poveri”. (8)
         Con patriottico slancio, e con un certo gusto per le tinte forti, Jacopo Cabianca le dedicò una poesia intitolata Ca' Labia, esaltando le doti umane e civili della contessa.                   
         Passarono gli anni. Il conte Paolo morì a Ferrara nel febbraio del 1866. A novembre, conclusa la terza guerra d’Indipendenza, Vittorio Emanuele II° fece un trionfale ingresso a Venezia liberata. Il giorno 11, dopo aver decorato con medaglia d’oro al valor militare la bandiera del Comune in piazza San Marco per i fatti del ‘48, il sovrano incontrò le dame incarcerate nel 1861. A ciascuna diede in dono un gioiello; alla contessa Labia regalò un anello con un magnifico brillante incastonato fra le iniziali V. E., esse pure in brillanti.
    Fra le dame incontrate dal Re vi era la contessa Maddalena Comello, per la quale Teresa avrebbe pubblicato nella Gazzetta di Venezia del primo giugno 1869 un commosso elogio funebre. “Povera amica! È cosa dura morire appena gustata la gioia di chi ha toccata la meta, dopo un lungo e disastroso cammino!... Sì, molto hai sofferto perché hai molto amato la Patria! Di questo tuo lungo soffrire, di questo tuo grande amore quale giudicheranno?... La famiglia, la Patria, l'umanità hanno tutto ottenuto. Fosti moglie adorata ed amorosissima madre, fosti cittadina forte e coraggiosa, fosti benevola e generosa con tutti, specialmente con gli infelici...” (9)

    Lapide posta nell'atrio delle scuole maschili, ora Palazzo Danielato (foto Duilio Avezzù)

          Bernardo Danielato, patriota di sicura fede sabauda, fu nominato primo sindaco di Cavarzere finalmente italiana. Una carica che ricoprì, con qualche intervallo, per molti anni. Anni difficili, da noi, per l’aggravarsi di antichi problemi. Mentre le operazioni di bonifica regalavano ai possidenti sempre nuovi terreni coltivabili e maggiori profitti, la povera gente senza più il beneficio dei prodotti vallivi, garantiti un tempo dalla pratica del vagantivo, si trovava esposta al ricatto di padroni esosi, compensata con paghe da fame per il suo lavoro nei campi prosciugati. Nel 1872 tremila popolani, uomini con donne e bambini, spinti dalla disperazione si radunarono davanti al Municipio chiedendo condizioni di lavoro oneste e sopportabili,  dicendo che avevano fame. Furono respinti dalla truppa a baionetta alzata, e una quarantina di loro finì in carcere.
         Al nome di Bernardo Danielato è legata la realizzazione di due importanti opere pubbliche. Nel 1867 avviò il progetto per la costruzione del primo ponte sull’Adige, già promesso dall’imperatore d’Austria e mai realizzato. Imitando poi la generosità del padre, nel 1875 donò il terreno per l’erezione in paese del grande edificio scolastico, con annessa la sala teatrale.
         Ma qui conviene ricordare che tramite la famiglia Danielato un altro dono il nostro paese l’aveva ricevuto nel 1864. Quale regalo di nozze per il cugino Giuseppe, figlio di Bernardo, l’ingegnere Carlo Bullo aveva narrato per la prima volta la storia di Cavarzere in un prezioso libretto che restituiva la memoria di un passato fino ad allora totalmente obliato e che sembrava perduto.



         Insignito di vari titoli onorifici, tra cui quello di Cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro, al sindaco Danielato non mancarono soddisfazioni. Nel 1874 Teresa venne festeggiata a Vienna, dove nello sfarzoso palazzo di Schonbrunn rappresentò Venezia in occasione d’un ballo dato dall’imperatore Francesco Giuseppe in onore di Vittorio Emanuele II°. E un’altra soddisfazione la ebbe nel 1879 per le nozze del figlio di Teresa con la contessina Maria Buonaccorsi, figlia d’una principessa Chigi e nipote del patrizio veneto Giuseppe Giovanelli. Sia i Chigi, della aristocrazia nera romana, che il Giovanelli, creato Principe dell’Impero Austriaco proprio alla vigilia dei moti del ‘48, in passato non dovevano aver guardato con simpatia quanti sognavano un’Italia unita e indipendente, né tantomeno i Savoia che s’erano accinti a quell’impresa. Fu un matrimonio, come già quello di Teresa, al quale taluno guardò forse con invidia: la ricca borghesia che era andata pian piano sostituendosi nel possesso dei latifondi alla nobiltà, aspirava ormai a fondersi con essa.
         L’ultimo esponente dei Danielato fu Andrea (1879-1935), figlio di Giuseppe. Sebbene vivesse per lo più a Trieste sentì sempre forte il legame col paese d’origine. Ad esso volle consegnare, e quasi restituire, le proprietà messe insieme dal nonno e dall’avo suo omonimo. Nel 1935, prossimo alla morte e senza figli, con lo spirito che era nella tradizione di famiglia fece munifico dono al Comune di tutti i beni posseduti a Cavarzere, affinché per i più infelici, gli anziani soli e bisognosi, venisse creata una Casa di Ricovero e fossero garantiti i mezzi per sostenerla. Esperto di come andavano le cose del mondo, nel testamento ripeté la raccomandazione di non affittare quei beni. Temeva che facendo ciò il Comune in pratica se ne espropriasse, non riuscendo poi col trascorrere degli anni a ricavarne il necessario per mantenere l’ospizio.
         Generoso, sensibile, disilluso, con qualche simpatia per la sinistra in un’epoca che andava tutta a destra, quest’uomo era stato segnato da una tragedia. Amalia Moimass, l’amatissima moglie che aveva incontrato a Trieste, gli era morta giovane dopo lunga malattia. Un dolore che lo aveva come svuotato, gli aveva inaridito la Fede e lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Volle essere sepolto accanto a lei, nudo, avvolto in un lenzuolo, col capo sostenuto dal plico contenente le lettere che s’erano scambiati ai tempi felici del loro innamoramento.

    Carlo Baldi, 10 marzo 2013


    Comunicazione di Andrea Danielato all'Arciprete Giuseppe Scarpa che domandava un contributo per il restauro dei due dipinti di Francesco Fontebasso ora custoditi nella sagrestia del Duomo (Archivio parrocchiale di Cavarzere)
                                                                                  
                                            
    Note

    1 - Carlo Bullo, Cavarzere e il suo territorio. Frassine, Chioggia, 1864. Pag. 93

    2 - Carlo Bullo, I Labia in Venezia. Notizie storico-genealogiche. Visentini, Venezia, 1879. Pag. 37-39

    3 - Jacopo Zennari, Adria e il suo territorio attraverso i secoli. Ricostruzione storica. Zanibelli, Adria, 1931

    4 - Venezia dal 1850 al 1866. Cenno storico. Tip. M. Fontana, Venezia, 1884. Pag. 7

    5 - I Labia a Venezia... cit.

    5 - I Labia a Venezia... cit.

    7 - Jacopo Cabianca, Venezia. Canti e ballate. Antonelli, Venezia, 1867. Pag. 204

    8 - I Labia a Venezia... cit.

    9 - Adriano Bassi, Le eroine del Risorgimento: amore e politica al femminile. Zanetti, 1996. Nota a pag. 277



    Giambattista Tiepolo, Banchetto di Cleopatra e Antonio. Affresco nel salone di Palazzo Labia, Venezia.



    Ca' Labia
    di
    Jacopo Cabianca



    Fra la ricchezza e il fasto
    Di barbariche pompe il suo Romano
    L'Egizia Imperatrice oggi convita.
    Sovra uno spazio vasto
    Muove popolo strano
    Di ogni abito e colore: in tirio manto
    E, più che donna, diva
    Sta Cleopatra e tanto
    Costei pennelleggiò Tiepolo viva,
    Che spirante e perfetta
    Ti par proprio vederla,
    Quando per entro della tazza d'oro
    Sbadatamente getta
    L'oriental sua perla.
    Questo d'arte magnifico lavoro,
    Che da sé un regno vale,
    Di Ca' Labia ammirar puoi nelle sale.

    A immagine di quella
    Oltre ogni dir stupenda creatura,
    Di cui, mercé dell'ombre e de' colori,
    Ancor ferma e novella
    In questa etade la sembianza dura;
    E non famosa d'impudichi amori
    O di schiavi e velen, ma singolare
    Di virtudi leggiadre
    E fra le donne care
    Soave figlia, sposa ottima e madre,
    Vedi sulla laguna
    Una gentil, che il core,
    Quando più congiuraro ai nostri danni
    Gli uomini e la fortuna,
    Educa al santo amore
    Della Patria e a un superbo odio ai tiranni.
    Questa è l'illustre Dama
    Di Ca' Labia e Teresa ella si chiama.

    Come al Mincio arrestosse
    L'arbitro della Senna e sparve a un tratto
    Anche di libertà quel sogno corto,
    Quasi d'assai non fosse
    Tanto dolore ei pur mancò disfatto
    Quegli che trar potea la nave in porto:
    Onde in Venezia ogni animo fu affranto
    E raddoppiò la soma
    Dei nostri ferri, al pianto
    Di lui, che primo avea gridato a Roma.
    Allor le adriache donne,
    In generoso esempio,
    Furono viste con forte desio
    Vestirsi a negre gonne
    E venirsene al tempio
    Propizianti alla grand'ombra Iddio,
    E lor moveva unito
    Di Ca' Labia l'onore al mesto rito.

    Quasi a suprema nuova
    L'Austriaco d'ira impallidì, allorquando
    Seppe di quelle oneste il pio tributo,
    E, qual sempre gli giova,
    Congiure e tradimenti alti sognando
    Chiamò le sue più vili arti in aiuto.
    Ben voi d'Asburgo o cavalieri, in fondo
    d'ogni virtù ridutti,
    Saluta a dritto il mondo
    Flagellator di femine e di putti,
    Se la pietà, che ai morti
    Quaggiù nessun ricusa,
    Ricambiate d'insulti e di catene;
    Onde ad ingiusti torti
    Una più ingiusta accusa
    Quelle animose oggi sentenzia, e viene
    In carcere pur ella
    Di Ca' Labia con lor la donna bella. 

    Oh! la carcere ingrata,
    Ove ribrezzo, ove ogni cosa mette
    Schifo e paura! Senza movimento
    Per quella desolata
    Caverna un’aria pesa e a torme infette
    D’immondi vermi dà vita e alimento.
    Ma del loco peggior son le molte
    Abitatrici, al lezzo
    Dei postriboli tolte
    E al baro e all’assassin cresciute in mezzo.
    Suonan le sconce mura
    Di bestemmie interrotte
    Da mille in vario suono urla imprecanti
    A Dio, alla natura;
    Né per giorno o per notte
    L'orgia si sazia degli osceni canti.
    Tale stanza s'appresta
    Ahi! di Ca' Labia alla matrona onesta.

    Appena entrò la muda
    L'invitta prigioniera, a un punto solo
    L'anima e gli occhi il fero puzzo offese;
    E se provò  la cruda
    Condizione e la vergogna e il duolo,
    Pur non tremò, pure mercé non chiese.
    Né le corse alla bocca una minaccia,
    Né una lagrima al ciglio;
    Ma con tranquilla faccia
    Su povero gittossi atro giaciglio.
    E gli occhi suoi serenamente mesti
    Volse intorno alle nove
    Compagne, e il crederesti?
    Come alla luce, che il meriggio piove
    In loco aspro e selvaggio,
    Vestonsi all'improvviso
    E sassi e sterpi di tinta diversa,
    Così al celeste raggio
    Del benedetto viso
    Fu trasmutata quella gente persa,
    E sin l'infame stanza,
    Di Ca' Labia al bel sol, cangiò sembianza.

    Ecco il tumulto cessa,
    Cessan le grida e per venirle a canto
    Ciascheduna di lor muovesi e parla
    Quanto più val sommessa,
    Ed ogni studio mette, ogni suo vanto
    A servirla, a piacerle, ad onorarla.
    Così già Roma delle belve ai morsi
    Il martire dannava
    E a lui leoni ed orsi
    Lambiano il piè coll'innocente bava.
    Miracolo gentile!
    Onde son vinte e dome
    Le peccatrici e per la prima volta
    In loco tanto vile
    D'Italia al dolce nome
    E a quel di Patria benedir si ascolta,
    E render pieno omaggio
    Di Ca' Labia alla fede ed al coraggio!


    Nel dì, che l'inonesta
    Condanna fu compita, una breve ora
    Stando dal lutto, cui nessun somiglia,
    Sorse Venezia in festa
    Le figlie a salutar, che uscite fuora
    Venian vittoriose alla famiglia.
    E l’odio crebbe in noi, quell’odio antico
    Che allor fia che ci lassi
    Quando il vinto inimico
    La male valicata Alpe trapassi.
    Io vi saluto, o belle
    Del patito dolore,
    Venete donne, e tu, gentil Teresa,
    Abbiti insiem con elle
    Riverenza e onore:
    Oggi più illustre il tuo martir t’ha resa
    E, qual cosa ben cara,
    Di Ca’ Labia le glorie Italia impara.

    (Jacopo Cabianca, Venezia. Canti e ballate. Antonelli, Venezia, 1867. Pagg. 205-211)

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