Frammenti di vita operosa a Cavarzere (1860-1960)

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    Frammenti di vita operosa a Cavarzere (1860-1960)
    Testi di Carlo Baldi, foto di Duilio Avezzù
    Grafiche Mariotto, Cavarzere, 2011. Pagine 224

    Dal libro...

    Osterie ce n'erano sempre state parecchie, in paese e sparse nel territorio, nei punti di sosta lungo l'Adige e il Gorzone. Nominate di continuo nelle lettere che gli antichi podestà spedivano a Venezia, erano il luogo in cui i paesani dovevano sentirsi più liberi. Davanti a un bicchiere pieno, un disgraziato poteva finalmente lasciarsi andare, cantare se ne aveva voglia, o mandando tutto alla malora, visti i tempi che correvano e come gli toccava vivere, sfogarsi con sguaiataggini fino a tre o quattro ore di notte, specie il sabato e la domenica. Soprattutto poteva giocare, se in tasca teneva qualche soldo, e se non l'aveva nessuno gl'impediva di tentar la fortuna e scommettere un bicchiere sperando nella buona stella. Se poi gli veniva di raccontare smargiassate aveva un pubblico a disposizione.
    Ma le osterie erano allora frequentate anche da gente poco raccomandabile. Individui mai visti, spesso in due o tre, che ordinavano da mangiare e continuavano a guardarsi attorno senza parere. Degli sbandati, nel migliore dei casi, che cercavano rifugio nelle nostre zone vallive dopo essere fuggiti dai paesi vicini, dove ne avevano combinata qualcuna di grossa. Con simile gente in un'osteria ne potevano capitare di brutte; in certe poi – come in quella al ponte di Ca' Dolfin, o a Rottanova, o a Lese sull'Adigetto – pareva che qualcuno le mandasse apposta.
    A uscir di testa e a metter mano al coltello erano anche i popolani che di tanto in tanto cedevano a improvvisi scatti d'ira per i più diversi motivi: una parola avventata, un debito di gioco, una scommessa perduta, una vecchia ruggine per motivi di lavoro, una rivalità in amore, la cattiva qualità del vino servito, o un'occhiata di troppo alla giovane ostessa. Luoghi di svago e di pericolo, le osterie, dove gioco, vino e risse preparavano spesso la rovina di una famiglia. Ma anche luoghi d'incontro, in cui trovarsi per discutere problemi di comune interesse, per decidere se andare a caccia o a tagliar canna tutti insieme in spregio a divieti ritenuti ingiusti, per accordarsi su come agire. Questo accadde di frequente specie sul finire del Settecento, quando ad esempio i popolani di Cannaregio nelle osterie di Bortolo Mainardi e di Stefano Bertolini decisero di non rieleggere i municipalisti del 1797, che alla povera gente – si diceva – avevano promesso molto e nulla mantenuto.
    Da allora, dapprima timidamente e in seguito con maggiore coscienza e rabbia, si andò nelle osterie anche per discutere di giustizia sociale, di soprusi, di diritti, di libertà. E ciò per tutto l'Ottocento e per buona parte del secolo appena concluso, sotto lo stimolo della sempre difficile situazione locale e del mutato spirito dei tempi.
    Di quei templi consacrati a Bacco – come ironicamente li aveva chiamati il Tiozzo – nel 1862 Cavarzere ne aveva ventidue. Col passare degli anni certe osterie divennero trattorie con alloggio, o caffè e bar. Ma ignorando nuovi appellativi la gente continuò spesso a chiamarle col loro vecchio nome. All'imbocco di via XXII Marzo c'erano nel 1950, l'una di fronte all'altra, la Trattoria “Al cacciatore” e la Trattoria Alfieri, che per tutti continuavano però ad essere l'osteria di Maria Banzato e l'osteria di Alfieri. Tali erano infatti rimaste nell'aspetto e nella clientela. Davanti alle loro finestre aperte sulla via sono passato infinite volte, da ragazzo. Ricordo che spesso, verso sera, nell'uno o nell'altro locale gli uomini cantavano brani d'opera, cori dall'Ernani o dal Rigoletto, e c'era tra loro chi si esibiva come solista. Altre volte proponevano con palese entusiasmo Bandiera rossa, ed altre ancora, a due voci e con tono appassionato, Il cacciatore nel bosco... Uomini delle vecchie osterie, che con i cori verdiani davano prova di una cultura popolare ormai quasi scomparsa, e negli altri canti esprimevano la speranza di una vita migliore, o la malinconia di amori lontani, il rimpianto di un'età perduta.
    Di quegli uomini ne ricordo uno, Guerrino Ferrari. Nel gennaio del 1945 un bombardamento gli aveva portato via la moglie e due figlie di 17 e 9 anni. Lo rivedo mentre si sforza di spingere su per una rampa dell'argine la carriola piena di terra, magro, ingobbito dalla fatica e dalla tragedia. Mi capitò a volte di vederlo tornare verso casa un po' incerto sulle gambe e credo più sereno nell'animo, perché le osterie erano anche i luoghi dove uomini provati dalla vita cercavano l'ultimo sollievo alla propria infelicità. Adesso sono allegre schiere di ragazzi e ragazze a trovarsi col bicchiere in mano in certi bar: palestre di inconsapevole conformismo, di adeguamento a modelli pubblicizzati e imposti dai mass media.

    (“Frammenti di vita operosa a Cavarzere”, Pagg. 112-114)

    Giorno di mercato (1910 circa)

    La bancarella di Giuseppe Contiero (Anni Cinquanta)

    Diploma di medaglia d'oro all'artigiano Giovanni Tortato

    Recensioni e articoli:

    N. Sguotti, La Voce di Rovigo, 13 dicembre 2011

    U. Bello, Nuova Scintilla, 18 dicembre 2011

    O. Jovane, La Piazza di Cavarzere, anno XVIII, n. 161

    F. Greggio, II Nuovo Dialogo, marzo 2012

    M. Ruggini, La Piazza di Cavarzere, maggio 2012

    C. Gibin, Chioggia. Rivista di studi e ricerche, n. 41, ottobre 2012




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