Dove avevano gettato la testa di quel povero ragazzo lo si scoperse il 26 luglio del 1934, sessantaquattro anni dopo che il suo corpo decapitato era stato trovato nella tenuta di Santa Maria. La draga che da giorni scavava il letto del Gorzone davanti al molo della Distilleria, presso il ponte ferroviario, insieme alla fanghiglia aveva riversato ai piedi dell'argine sinistro un teschio umano. Raccolto dai lavoranti, si valutò che per le dimensioni fosse appartenuto a un giovane di circa quindici anni. Tanto bastò perché fosse subito collegato a un delitto di cui si aveva ancora memoria. A rafforzarne la convinzione fu la stranezza del rinvenimento: il teschio era riapparso proprio davanti alla casa – ben lo ricordavano i più vecchi – dove aveva abitato uno degli assassini. Il quale dunque, per sbarazzarsi di quella testa che s'era portato fin lì dai lontani campi della Gesia, l'aveva evidentemente gettata nel canale a notte fonda, senza allontanarsi per paura d'essere visto.
Il fatto era accaduto il 10 ottobre del 1870. Quel giorno alcune ragazzette erano state a spigolare nei campi di granoturco in Gesia. A mezzodì, ritornando lungo il sentiero già percorso al mattino, videro lontano, disteso di traverso, il corpo di un uomo. Qualcuno che s'era sentito male? Ma non si trattava di un malore, e lo capirono poco dopo, quando si accorsero che al corpo mancava la testa. Gridando per l'orrore e lo spavento fuggirono verso l'edificio principale della tenuta. Corse gente e la notizia si sparse rapidamente nelle casupole schierate lungo il Gorzone. Furono avvertite le autorità comunali e il pretore si recò sul posto del delitto. Poiché occorreva dare un'identità all'ucciso, sicuramente un giovane, per ore nei campi lì intorno i gendarmi cercarono la testa, senza trovarne la minima traccia. Lo sconosciuto ebbe un nome soltanto verso sera, quando alla corte (dove il corpo era stato portato) si presentò una donna che dalla corporatura e dai vestiti riconobbe il proprio figlio, Moisè Grillo, di sedici anni.
Il delitto “inaudito e barbaro” mise in agitazione i popolani, i quali si domandavano: chi può aver commesso una simile azione se non un guardiano della tenuta? Tanto più che Moisè – si diceva – era solito entrare di nascosto nelle terre a granoturco prima della raccolta. Il furto di quattro pannocchie, magari ripetuto, non poteva tuttavia in alcun modo giustificare l'orribile misfatto. Anche il pretore era convinto che a compierlo fosse stato uno dei quattro guardiani. Li volle dunque la sera stessa davanti al corpo di Moisè, per interrogarli; ma si dissero estranei all'accaduto.
A qualcuno non sfuggì però un dettaglio: Giuseppe Conselvan e Lorenzo Groppo si erano presentati indossando il vestito dei giorni festivi. Caso davvero strano, perché era un lunedì e da noi non si costumava certo vestirsi da festa nei giorni feriali: la mattina infatti erano stati visti girare per la tenuta con i loro consueti abiti da lavoro. La cosa venne riferita al pretore, il quale richiamò i due guardiani pretendendo la consegna dei loro vestiti “da strapazzo”, che non si trovarono in alcun luogo. Spariti anch'essi, come già la testa del ragazzo, senza che Conselvan e Groppo riuscissero a spiegarlo, per cui il pretore ne ordinò l'immediato arresto. Trascorsi due mesi, non essendo stata raccolta nel frattempo alcuna concreta prova a loro carico, furono rimessi in libertà.
Nonostante il pesante indizio dei vestiti, la morte di Moisè rischiava di rimanere un caso irrisolto, con grande rammarico del pretore, fiducioso tuttavia che prima o poi qualcuno avrebbe parlato. Quel 10 ottobre, a girare per i campi della Gesia e dell'intera tenuta, c'era infatti molta gente, non solo le ragazzette imbattutesi nel corpo mutilato. Doveva pur esserci chi, magari da lontano, aveva visto o udito, ed era stato zitto. Bastava attendere. A raccontare finalmente un particolare rivelatore fu una giovane contadina che quel mattino si era trovata “sul posto”, e le sue parole furono in seguito confermate da altre donne. Gli assassini erano davvero i due guardiani: il Conselvan con una fucilata aveva colpito il ragazzo, forse al viso, e il Groppo, non vedendolo morto, gli aveva reciso il capo con la roncola. Sconvolti, imbrattati di sangue, erano poi fuggiti portando con sé la testa di Moisè avvolta in un indumento, nell'assurdo tentativo di renderne impossibile l'identificazione.
Il processo si svolse a Venezia. Quali testimoni furono chiamate Carolina Zerbinato, Chiara Borella, Giovanna Fantinato – che all'epoca del fatto avevano tredici o quattordici anni – e poi Ginevra Cornaro, Celeste Stocco, Maria Chiericato e Maddalena Ventura. Il 27 luglio 1872, riconosciuti colpevoli, i due “omicidi e carnefici” furono condannati a vent'anni di lavori forzati. A Cavarzere ci si aspettava invece una condanna a morte, come lasciava capire l'ultima terzina di una poesia di Sofoleone Mainardi, avvocato con aspirazioni letterarie e possidente:
Sì brutal ferita non si raffrena
che di morte col fio: tragedia è questa,
che vuol capo per capo a estrema pena.
Carlo Baldi, 25 giugno 2017
Antico caseggiato nella tenuta di Santa Maria (Google StreetView) |